L’articolo odierno, pubblicato nella ricorrenza dell’80° anniversario del bombardamento che colpì Cagliari il 28 Febbraio 1943, è la seconda parte di un gruppo di tre articoli (trovate qui il primo articolo) dedicato alla tragedia che si abbattè dai cieli sulla nostra città. Qui verranno descritti gli edifici andati distrutti per sempre (o recuperati secondo forme diverse da quelle originarie) a partire dalle loro vicende storico/costruttive, senza entrare nel merito della ricostruzione che verrà approfondito nel terzo articolo dove verranno descritti anche gli edifici e i monumenti qui assenti, ovvero quelli nei quali la ricostruzione fu precisa al punto da ripristinare perfettamente le forme originarie (ad esempio il Bastione di Saint-Remy, Palazzo Valdes, la Basilica di San Saturnino e altri). Gli edifici scomparsi o che non presentano più l’aspetto pre-bellico sono descritti quartiere per quartiere, in una costruzione dell’articolo che non vuole togliere importanza a nessun edificio e che comincia con le perdite subite nel quartiere Castello.
Palazzo Pes di Villamarina: non si hanno notizie precise circa la costruzione degli edifici al di sopra del “Fossario” (da cui prende il nome la via) e sui quali venne poi impiantato il Palazzo Pes di Villamarina con il portico che lo divideva in due ali differenti: una più antica sulla via del Duomo e una più recente sulla via Fossario. È certo che fino al XVI e agli inizi del XVII secolo l’area era ancora occupata oltre che da una parte del Fossario anche da un tratto delle mura pisane. Un’ipotesi verosimile è che l’edificio non sia nato direttamente nella sua forma a noi nota e ancora apprezzabile prima dei bombardamenti, ma è possibile che sul Fossario siano stati edificati diversi lotti gotici (le caratteristiche palazzine strette sul prospetto e sviluppate longitudinalmente) uniti poi nella prima metà del XVIII secolo all’ala di via del Duomo per formare il palazzo nobiliare. La differente conformazione del portico, diviso in sezioni di altezza differente – come è possibile intuire tuttora nella parte salvatasi dalla furia bellica – sembrerebbe confermare lo sviluppo edilizio in più fasi successive nel tratto alto della via Fossario.
Come detto, l’edificio era formato da due corpi di fabbrica al tempo stesso separati e raccordati dal portico del Fossario. L’ala più antica, quella di via del Duomo, risalirebbe al XV-XVI secolo, come fanno supporre i pochi resti murali su cui spiccano le cornici in trachite rossa ancora in parte visibili; in particolare, un piccolo portale “a dovellas”, con i conci dell’arco vistosamente più ampi rispetto a quelli degli stipiti, mostra come la costruzione risentisse ancora di influssi tipici dell’architettura tardogotica catalana ad uso civile.
L’impianto su via Fossario invece mostrava caratteri già neoclassici.
Il prospetto più interessante era quello sul Terrapieno che, pur nella sua sobrietà, mostrava caratteri singolari e una notevole eleganza compositiva. Nel piano inferiore si apriva una loggia divisa in sei arcate a tutto sesto dalla quale si accedeva alla terrazza sul terrapieno protetta da una balaustra a transenne di chiara matrice neoclassica ispirata all’architettura romana. L’aspetto esterno del primo piano fa pensare che vi fosse originariamente una seconda loggia sovrapposta alla prima (dalle foto d’epoca erano ancora ben leggibili le arcate) e che in una fase successiva venne tamponata per ricavare più vani realizzando comunque una fila ordinata di balconi nelle murature occlusive. I caratteri decorativi di questi balconi, riquadrati da semplici fasce piatte con gocce nella parte superiore (tipiche di tantissimi edifici costruiti dal ‘700 in poi) rivelano un gusto ancora tardo e fanno supporre l’occlusione della loggia in un periodo non successivo al primo ‘800. Al secondo piano, sette paraste dividevano il fronte in sei specchi corrispondenti alle sottostanti arcate e balconate, al centro dei quali si aprivano delle finestre di forma quadra. Oltre il cornicione poco aggettante, in corrispondenza di ogni parasta era presente una base con modanatura a scozia sorreggente una sfera.
Lo Spano, nella sua “Guida della Città di Cagliari” del 1861 ci informa che all’epoca il palazzo era la sede del Casino Filarmonico fondato nel 1842 e descrive gli ambienti interni come “belle sale tappezzate, ed adornate decorosamente”. Nel 1939 il palazzo venne acquisito dalla Questura che lo mantenne come sede fino alla distruzione. L’ultima immagine del palazzo, risalente al 1940, lo mostra ben ristrutturato con un intonaco liscio e monocromatico su tutto l’insieme architettonico e dotato di moderne tapparelle con apertura a sporgere e cassone superiore che ridimensionava l’originaria ampiezza dei balconi. Questo bel restauro fu l’ultima veste dell’edificio prima del bombardamento del 26 Febbraio 1943. Le bombe sventrarono entrambe le ali dell’edificio che non fu mai ricostruito. Le macerie rimasero fino al dopoguerra inoltrato quando lo sgombero delle due aree comportò la realizzazione di una piazzetta al centro della via del Duomo e una serie di terrazze sul lato di via Fossario sulle quali, solamente in tempi recenti, vennero ricostruiti due ambienti occupanti due delle sei arcate originarie.
Chiesa di San Giuseppe Calasanzio: Costruita dai Padri Scolopi contestualmente all’edificazione del loro convento su lotti edilizi donatigli da privati nella prima metà del XVII secolo, la chiesa venne innalzata a partire dal 1663 e i lavori subirono diversi rallentamenti tanto che la chiesa venne conclusa solamente nel 1735. L’edificio risponde perfettamente ai canoni tipici delle chiese scolopiche come testimonia la somiglianza planimetrica con le altre chiese dell’ordine in Italia e, in particolare, con il San Domenico di Chieti cui corrisponde in gran parte anche la facciata. Il prospetto è diviso in due ordini da un’alta trabeazione in forte aggetto poggiante su sei lesene (due ai lati e due coppie al centro) che dividono l’ordine inferiore in tre specchi. In quello centrale si apre il portale con timpano spezzato al cui interno è posto lo stemma degli Scolopi. Il secondo ordine è formato dal solo specchio centrale cui si affiancano due elementi di raccordo. L’interno, costituito da un’unica navata con tre cappelle comunicanti per lato e un profondo presbiterio cupolato, era caratterizzato da altari in marmi policromi in ogni cappella e da un ricco apparato decorativo a cassettoni dipinti sul soffitto. I bombardamenti del 1943 colpirono in modo serio l’edificio danneggiando il prospetto e demolendo la fiancata destra con parte della volta. I restauri del 1948-1952 recuperarono le forme originarie dell’edificio pur con l’uso di materiali diversi dall’originale – fu infatti fatto largo uso del cemento – e senza ripristinare le decorazioni andate perdute. Attualmente, dell’arredo originario rimane il solo altare maggiore col pulpito. La chiesa, chiusa al pubblico negli anni ’70, versa nuovamente in un terribile e pericoloso stato di abbandono.
Palazzo Serra-Sanjust: del Palazzo Serra-Sanjust si hanno poche notizie soprattutto per quanto riguarda le sue vicende costruttive e, in particolare, per quanto riguarda i suoi adattamenti ottocenteschi che lo portarono alla configurazione col quale fu conosciuto fino al 1943. Ciò che si può dedurre è la nascita dell’edificio dall’unione di tre lotti gotici, uno sulla via Canelles e due sulla via Fossario. Non è dato sapere con certezza quando questa unificazione avvenne e se fu in concomitanza con i lavori che aggiornarono il gusto dell’edificio ad un tardo neoclassicismo già anticipatorio degli stilemi umbertini e liberty. I fronti sulle due vie, pur differenti per dimensioni, mostravano un’unità stilistica che lascia intendere la mano di un unico, raffinato progettista. Delle due ali del palazzo oggi sopravvive solo la più piccola sulla via Canelles mentre, in seguito alla distruzione bellica, il lato di via Fossario fu ricostruito in uno stile moderno e disadorno, praticamente anonimo. Il raffronto tra la facciata ancora esistente in via Canelles e le foto d’epoca in cui si scorge quella su via Fossario permette di stabilire un’identità fra l’ala minore e la porzione centrale di quello sul Fossario.
In entrambi i prospetti, sobri portali sormontati da riquadri con motivi vegetali immettevano nei vani d’accesso; un alto basamento comprendeva anche il piano ammezzato con sobrie aperture, mentre sul piano nobile si apriva una balconata sorretta da mensole su volute scolpite con un ricco decoro a motivi vegetali. La balconata era formata da tre aperture rettangolari sovrastate da lunette finestrate al centro delle quali erano presenti altri elementi decorativi di piccola dimensione. Al di sopra della cornice del balcone centrale un fregio con volute e decori vegetali incorniciava il concio della chiave di volta in cui erano incise le iniziali delle due famiglie Serra/Sanjust. Il secondo piano contava tre ulteriori aperture sulla via Canelles, mentre sulla via Fossario non vi era l’apertura centrale al posto della quale si trovava il grande stemma della famiglia.
Il prospetto su via Fossario – come detto – era più ampio di quello su via Canelles, per cui al corpo centrale si affiancavano due ali in leggerissimo aggetto ognuna delle quali riprendeva le stesse identiche partiture decorative del corpo centrale, eccezion fatta per il piano nobile in cui, invece dei balconi con lunette, si trovavano aperture sovrastate da timpani semicircolari sorretti da modiglioni e con un ricco ornato vegetale sopra la cornice. Concludeva il prospetto l’ampia balconata della terrazza. Allo stato attuale, l’edificio che lo ha sostituito è un caseggiato di fattura moderna con quattro aperture – in luogo delle precedenti cinque – riquadrate da semplici fasce in cemento. All’interno, nell’atrio, è custodito lo stemma un tempo presente sulla facciata e recuperato dalle macerie.
Palazzo Atzeri-Vacca e Palazzo Pes: nello spazio compreso tra la via Canelles, vico I Lamarmora e via Lamarmora le bombe distrussero una parte del palazzo Atzeri-Vacca e uno dei tanti palazzi Pes presenti nel quartiere. Del Palazzo Atzeri-Vacca (un tempo De Roma, poi Serra di Santa Maria) è mancante parte del corpo centrale e l’intero lato su via Canelles. Qui e in via Lamarmora erano i lati corti dell’edificio e mostrano come esso fu formato dall’unione di due lotti gotici – uno su ogni strada – con la realizzazione dell’ampio ed elegante prospetto sul vico I Lamarmora, ancora fortunatamente apprezzabile nonostante i decenni di abbandono. Il Palazzo Pes si presentava con due prospetti identici su via Canelles e via Lamarmora: quest’ultimo è l’unico elemento superstite dell’edificio e consente di stabilire su entrambi i fronti la presenza di balconi su mensole in ferro e incorniciati da piatte fasce in pietra in leggero aggetto con le classiche gocce sulla parte superiore secondo lo stile tipico degli edifici nati o ristrutturati dal XVIII secolo in poi. Le bombe sventrarono il palazzo su cui non venne operata nessuna ricostruzione, nemmeno parziale, lasciando sulla via Canelles un ampio spazio vuoto adibito a parcheggio mai pavimentato.
Palazzo Aymerich: anche sul palazzo Aymerich non si hanno molte notizie circa la sua edificazione e la sua storia, sebbene venga vagamente attribuito a Gaetano Cima per chiari riferimenti al suo stile ma con un linguaggio architettonico decisamente più modesto. È evidente la sua realizzazione dall’unione di più lotti in un unico edificio inglobante nel Portico Laconi la strada traversa che li separava per raccordare via Lamarmora alla via Genovesi, sulle quali prospettava l’ampio edificio. Non esiste documentazione fotografica né alcun disegno che consenta di ricostruire l’aspetto dell’edificio prima dei bombardamenti. Una lettura dei pochi volumi superstiti consente di intuire una suddivisione su entrambe le strade in due ali differenti separate dal portico. Sulla via Lamarmora, l’ala più a meridione doveva presentarsi decorativamente più articolata come dimostra l’unico arco superstite evidenziato da una cornice aggettante ben modanata, mentre le tre arcate superstiti dell’ala più settentrionale (una delle quali immetteva nel portico Laconi) si presentavano lisce con la sola eccezione di una semplice e sottile modanatura incavata a sottolineare l’intradosso. Anche il fronte sulla via Genovesi si presentava distinto in due ali per quanto riguarda il solo basamento, mentre i piani superiori delle due sezioni erano raccordati in una composizione architettonica omogenea. L’ala più a nord comprendeva lo sbocco del Portico Laconi e un altro ambiente di accesso, entrambi praticabili attraverso alti archi a tutto sesto separati da un oculo circolare. L’ala meridionale era scandita alla base da tre portali alternati a quattro finestre. Il basamento includeva il primo piano su entrambe le ali consentendo quindi una maggiore unità stilistica sui piani superiori che si presentavano sobri e privi di elementi di rilievo. Dell’edificio non restano oggi che pochi ambienti nei pianterreni e un enorme cumulo di rovine non ancora sgombrate dopo 80 anni.
Palazzo Carroz: Un altro edificio storico che i bombardamenti hanno spazzato via dalla memoria cittadina, anche per l’assenza di documentazioni e materiale fotografico, fu il Palazzo Carroz che si trovava in via Lamarmora dove inglobava parte del Portico delle Anime (noto anche come “Portico del Cristo” o “Portico Lamarmora”), il quale sopravvive quasi nella sua interezza mancando solamente la porzione corrispondente al fronte strada. La disposizione delle aperture sul Palazzo Belgrano (separato da Palazzo Carroz proprio dal Portico) fa ipotizzare però una certa unità stilistica tra i due edifici con il portico al centro a fare da asse di simmetria ed elemento di raccordo. Pertanto è ipotizzabile anche per il Palazzo Carroz una struttura composta da un pianterreno in cui portali centinati si alternavano a finestre squadrate e con i balconi dei piani superiori sobriamente riquadrati con cornici modanate prive di timpani e cimase.
Palazzo Falqui e Portico Vivaldi-Pasqua: Del portico Vivaldi-Pasqua sopravvive oggi una sola arcata ogivale la quale testimonia un’origine tardogotica ben più antica rispetto ai due edifici che esso separava: il Palazzo Asquer-Nin di San Tommaso e Palazzo Falqui, entrambi originati dall’unione di più lotti gotici nella seconda metà del XVIII secolo. Se però il Palazzo Asquer mostra nella sua architettura elementi decorativi tardobarocchi di chiara matrice piemontese che consentono una sua datazione più precisa al secondo ‘700, la sobrietà del Palazzo Falqui consentiva di identificarne il mero carattere neoclassico spaziando però in un arco di tempo che poteva arrivare anche alla metà del XIX secolo. Era infatti un edificio di modesto rilievo architettonico seppur valente di una sua decorosità dovuta anche al fatto che prospettava sull’antica Plazuela, l’attuale Piazza Carlo Alberto.
Un’unica immagine d’epoca lo ritrae visto dal campanile del Duomo: si può qui vedere come fosse articolato in tre piani alti nei quali si aprivano balconi con sobri poggioli in ferro battuto leggermente aggettanti e con cornici non modanate ricavate da piatte fasce d’intonaco. Il portico Vivaldi-Pasqua, curiosamente, non apparteneva nella sua interezza a nessuno dei due edifici, bensì la divisione tra il Palazzo Asquer e Palazzo Falqui avveniva sopra l’arco del portico. Lo spazio coperto non doveva presentare particolari di grande interesse architettonico se non la volta ogivale nel suo tratto più prossimo alla via dei Genovesi dove, discesi pochi gradini, sfociava in un vicolo che separava i prospetti dei summenzionati palazzi Asquer e Falqui, qui caratterizzati da una più modesta architettura. I bombardamenti del Maggio 1943 colpirono i due palazzi, demolendo una porzione del Palazzo Asquer corrispondente alla mezza arcata del portico, devastando il portico stesso eccezion fatta per l’unica arcata sopravvissuta forse proprio grazie alla sua forma ogivale che smorzò l’urto con le macerie provenienti dai piani superiori (anche se dalle foto successive ai bombardamenti è possibile vedere come si salvò anche l’arco di accesso al portico) e il palazzo Falqui, mai più ricostruito.
Piazza Palazzo: uno dei luoghi-simbolo della devastazione causata dai bombardamenti è la Piazza Palazzo, nella cui parte alta sono ancora visibili le macerie derivanti dalla distruzione della metà dell’isolato che dalle scalette per il Palazzo Viceregio si estendeva fino al Vico I Martini. Qui, alcuni edifici signorili chiudevano in modo dignitoso la piazza, pur non presentando particolari architettonici di rilievo, mantenendo inoltre in evidenza lo slargo originario su cui prospettava il Palazzo Viceregio e che un tempo si estendeva fino alla Piazzetta del Duomo in forma di una strada mediamente larga delimitata dal suddetto Palazzo Viceregio a est e dal Palazzo dei Marchesi della Planargia (demolito negli anni ’20) sul lato opposto. I due edifici che chiudevano la Piazza Palazzo a settentrione, quelli distrutti dalle bombe, chiudevano l’accesso all’antica Carrer de Calabraga, più nota come “Su Carrilloni”, l’antica strada “a luci rosse” del Castello su cui appunto si affacciavano i bordelli.
La chiusura della stradina avvenne nel XVIII secolo e fu così che questa viuzza fu trasformata in un lungo e stretto cavedio su cui si affacciavano i lati interni dei palazzi di via Canelles e Via Martini. I bombardamenti ne rimisero in luce un piccolo tratto tuttora visibile nella parte alta della piazza, mentre distrussero quasi totalmente gli edifici che lo attorniavano, dei quali si salvarono solo pochi ambienti sul lato sinistro facenti parte di palazzi accessibili dalla via Canelles. Non venne mai proposto un progetto di recupero dell’area se non in anni recenti e a titolo più sperimentale che progettuale. Un ulteriore contributo al degrado di questa parte della piazza avvenne nel 1972 con la demolizione del Palazzo Amat di San Placido, colpito anch’esso dai bombardamenti ma non così pericolante da non poter essere salvato, sul luogo del quale oggi si trova la panoramica Terrazza Mundula.
Teatro Civico: quella del Teatro Civico fu forse una delle più significative perdite nel patrimonio architettonico e culturale cagliaritano. La storia del Teatro Civico iniziò con il progetto redatto nel 1764 dall’ingegnere militare Saverio Belgrano di Famolasco per la realizzazione di un unico blocco di edifici in cui realizzare la sede del Rettorato dell’Università di Cagliari (fino ad allora ospitata nell’attuale Palazzo Giustiniani) e quella del Seminario Tridentino, entrambi su via Università. Il Teatro Civico proposto dal Belgrano avrebbe occupato la parte centrale del blocco edilizio formando un raccordo simbolico tra l’ala religiosa del fabbricato, il Seminario, e quella umanistica, l’Università.
Il teatro, così come concepito dal Belgrano, avrebbe prospettato sulla via Università mantenendo l’unità architettonica con gli altri due edifici nei piani superiori ma distinguendosi per la presenza di un portico a cinque arcate nel pianterreno. L’eliminazione del Teatro dal progetto consentì sedi più ampie per entrambi gli istituti, poi riunificati tanto che ora l’insieme è considerato come un unico edificio noto appunto come Palazzo dell’Università. Tale eliminazione non privò Cagliari, né tantomeno il Belgrano, del progetto per un nuovo teatro poiché all’Ingegnere militare fu commissionato dal Marchese Zapata il progetto per un teatro ligneo attiguo al suo palazzo, quale poi venne effettivamente realizzato. Negli anni ’30 dell’Ottocento il Teatro fu ceduto dal Zapata al Comune in cambio di alcuni terreni nell’agro di Pirri e questa fu l’occasione per affidare i lavori di ampliamento e adeguamento del Teatro all’architetto Giuseppe Cominotti, del quale si conserva ancora lo splendido progetto nell’Archivio di Stato. Il progetto, datato al 1831, prevedeva un’ampia sala – corrispondente in larga parte a quella effettivamente realizzata – con tre ordini di palchi più il loggione. L’interno prevedeva un sontuoso apparato decorativo di gusto squisitamente neoclassico con ancora influenze dello stile Impero. Tre ricchissimi fregi avrebbero dovuto correre lungo le balconate dei palchi caratterizzate da elementi allegorici, motivi vegetali e raffigurazioni di strumenti musicali. Nel progetto, il Palco Reale occupava lo spazio di tre palchi normali e si affacciava sulla platea decorato da un magnifico drappeggio scolpito, in parte sostenuto da cariatidi e sovrastato dalla corona reale. Il disegno per la decorazione del soffitto prevedeva la suddivisione in sei specchi che riprendevano la decorazione dei palchi e uno spazio centrale affrescato.
Con la morte del Cominotti non venne mai portato avanti il progetto originario la cui revisione fu affidata a Gaetano Cima che riadattò i sistemi di accesso prevedendo un monumentale porticato sulla via De Candia, revisionando l’altezza dei palchi onde realizzarne quattro ordini più il loggione in luogo dei tre previsti al principio ma soprattutto riorganizzando il partito decorativo secondo un gusto sempre neoclassico ma più modesto di quanto previsto dal Cominotti. In particolare, il ricco fregio delle balconate fu ridotto ad un decoro a girali d’acanto, mentre il palco reale fu privato del drappeggio e delle cariatidi previste in origine, e venne sistemato in una sobria apertura centinata sovrastata da una cornice con decoro a foglie. Il soffitto era un’opera più recente rispetto alla realizzazione del Cima e manifestava già un cambio di stile orientato al gusto tipico della Belle Époque e forse costituiva l’elemento di maggior pregio. Il teatro così realizzato si mostrava quindi sobrio ed elegante, ma sofferente dei limiti di Gaetano Cima che, pur grandissimo architetto, nel suo interesse verso il purismo architettonico manifestava una certa serialità – se non mediocrità – per quanto riguarda il gusto decorativo.
Ulteriori lavori di adeguamento vennero intrapresi negli anni ’30 ed interessarono soprattutto il Foyer che fu riorganizzato nei suoi spazi interni e del quale venne rielaborata la facciata in uno stile storicista tipico del Ventennio (qui potete approfondire i cambiamenti nelle facciate cagliaritane) caratterizzato da cornici e timpani massicci ben distanti dalla sobria eleganza di quelli del resto del Teatro rimasti inalterati. Le bombe colpirono il teatro il 26 Febbraio 1943 devastandolo completamente ma lasciando intatte le mura perimetrali e aggiungendo una ulteriore perdita per la cultura cagliaritana dopo il rovinoso incendio che l’anno prima distrusse il bellissimo Politeama Regina Margherita.
Il percorso prosegue nel quartiere della Marina che, per la sua prossimità al porto, fu tra i quartieri cittadini maggiormente colpiti dalle bombe ma è anche il quartiere in cui si operò per una maggiore ricostruzione – in gran parte il più fedele possibile – laddove le condizioni lo consentirono, nonostante non mancarono casi di “ammodernamento” in luogo di fabbricati soprattutto civili nella parte più centrale del rione. Qui gli edifici scomparsi sono relativamente pochi, ma di grande rilievo se si pensa all’importanza storico/artistica/culturale rivestita nei secoli.
Santi Giorgio e Caterina dei Genovesi: il caso più drammatico nella Marina riguarda la Chiesa dei Santi Giorgio e Caterina dei Genovesi, nella via Manno, sul luogo in cui oggi sorge l’ex palazzo della UPIM attuale sede del grande magazzino Zara. Il Canonico Spano ne fornì un’ottima descrizione, pur non entrando nel dettaglio per quanto riguardava le composizioni degli altari laterali, ragion per cui alcuni elementi oggi superstiti appaiono di difficile collocazione in quello che fu l’edificio originario da cui provengono.
Costruita nel 1599, come testimonia la lapide un tempo nella sacrestia e oggi montata sopra la bussola d’ingresso alla chiesa nuova (costruita alle pendici del Monte Urpinu), subì diversi adeguamenti al gusto barocco e rifacimenti a inizio ‘900. L’interno constava di un’aula unica voltata a botte, senza cupola e con sei cappelle laterali, tre per parte, secondo un progetto di chiara ispirazione controriformista riscontrabile architettonicamente in altri edifici coevi (Santa Croce, Santa Restituta, San Francesco di Paola).
Il prospetto, di gusto barocco, era diviso in tre specchi da lesene ioniche che avevano sostituito quelle più antiche di tipo tuscanico (qui le informazioni sui cambiamenti nelle facciate) ed era sormontato da un ordine superiore con una grande lunetta e concluso dal tipico coronamento a lucerna di carabiniere (trovate informazioni sulle Lucerne di Carabiniere in questo articolo). Il bellissimo portale era affiancato da due colonne tortili in marmo ai lati delle quali si trovavano due cariatidi.
Al di sopra della trabeazione, un timpano semicircolare spezzato conteneva il grande stemma di Genova (uno scudo con la Croce di San Giorgio sorretto da due grifoni), oggi posto sopra l’ingresso della chiesa nuova. Gli angeli un tempo presenti sulle due metà del timpano erano già scomparsi negli anni ’20 a seguito del distacco e della caduta di uno dei due, per via della quale si decise di eliminare anche l’altro). Il ricco arredo interno era formato da altari in marmo in ogni cappella più un grandioso altare maggiore sul presbiterio, anch’esso realizzato in marmo. La volta era decorata a cassettoni ma si trattava di un’opera che nel 1943 era relativamente recente come documenta il fatto che il Canonico Spano nel descrivere l’affresco col martirio di San Giorgio dipinto sulla volta del presbiterio ne descriva l’ovale sostenuto da quattro angeli (si suppone in stucco), mentre le foto dell’interno prima del bombardamento lo mostrano inserito in una cornice con medaglioni ai quatto lati.
Gli stessi cassettoni della volta – all’interno dei quali ciascun riquadro centrale era attorniato da dieci modiglioni – e le cornici decorate con motivi a girali che riquadravano i cassettoni, con le borchie a rosette su ogni angolo, rendono evidente l’attribuzione della volta allo stesso progettista che decorò le volte del Duomo e i soffitti della Camera di Commercio, pertanto si può parlare di opere risalenti agli anni ’20 e verosimilmente concluse nel 1929 anno in cui venne fusa la nuova campana per il campanile a vela della chiesa, non visibile dalla strada ma – come in molte delle chiese del XVI secolo a Cagliari – posto al di sopra della parete di fondo e accessibile solo dall’interno della chiesa.
La Chiesa, sopravvissuta a gran parte dei bombardamenti, fu colpita il 13 Maggio 1943 e rasa al suolo eccezion fatta per le sole cappelle laterali di sinistra, pur fortemente danneggiate. Le opere pittoriche, gli argenti e i preziosi simulacri furono fortunatamente messi in salvo in modo preventivo e oggi costituiscono il corpus più importante del Museo dell’Arciconfraternita dei Genovesi.
Altri elementi lapidei furono recuperati dalle macerie e divisi in parte tra il Museo dell’Arciconfraternita (quattro colonne corinzie, un angelo e due figure velate provenienti da gli altari delle cappelle laterali, due stemmi della Città di Genova anch’essi verosimilmente inseriti in altari laterali o nei soprapporte del presbiterio, la colonna di sostegno del pulpito e altri frammenti di altari) mentre altri vennero reimpiegati per la chiesa nuova (tra essi lo stemma di Genova sopra il portale, la lapide dedicatoria già menzionata, la pedana del pulpito trasformata in fonte battesimale e poggiante su un rocco di colonna di uno degli altari laterali, le basi di un altare con teste d’angeli, un tabernacolo e alcuni capitelli di lesene), mentre altri frammenti si trovano oggi nel lapidario dell’ex cava di Monte Urpinu (le basi delle due colonne del portale, un rocco di colonna a tortiglione e i semi-timpani in marmo bianco provenienti dall’altare maggiore). Le foto scattate dopo i bombardamenti testimoniano la distruzione della copertura, del presbiterio con l’intera parete di fondo e della facciata. Il poco che restava delle cappelle laterali non avrebbe comunque consentito una ricostruzione fedele dell’edificio.
Santa Lucia: ufficiosamente attribuita ai danni bellici, ma ufficialmente derivante da scelte posteriori quanto mai sbagliate, fu la demolizione della Chiesa di Santa Lucia in Marina. Costruita nel XVI secolo in luogo di una chiesa più antica, presentava i caratteri tipici dell’architettura controriformistica nella sua derivazione sarda. Aveva dunque una navata unica con tre cappelle per lato, presbiterio sopraelevato (qui coperto da una cupola assente in altri edifici coevi) e nessun campanile in prossimità del prospetto. Dell’esterno si conosce solamente un disegno custodito presso l’Archivio Storico e facente parte del Fondo Lepori, nel quale viene mostrata tutta la sobrietà di una facciata priva di elementi di rilievo e conclusa da un coronamento mistilineo che richiamava la tipica lucerna di carabiniere (per approfondire, consiglio l’articolo sulle lucerne di carabiniere).
Non esistono foto dell’esterno e anche per quanto riguarda gli interni l’unica documentazione fotografica è quella posteriore ai bombardamenti dalla quale si evince la lievità dei danni. Difatti la chiesa fu colpita nell’area presbiteriale dove una bomba scoperchiò una porzione della cupola mentre lo spostamento d’aria unito alle schegge causò qualche danno facilmente riparabile agli altari. Si comprende quindi come la chiesa potesse essere velocemente e accuratamente recuperata ma il piano di ricostruzione postbellico previde, al suo posto, la realizzazione di una piazza in un progetto che – nonostante la demolizione della chiesa – non venne mai compiuto. Del ricco arredo interno non si salvarono che pochi elementi, ovvero due medaglioni provenienti dalla Cappella dell’Addolorata e facenti parte di due monumenti funebri gemelli, uno dei quali era quello del nobiluomo Bernardo Dugoni di cui si è parlato nell’articolo sui busti commemorativi.
Il secondo Palazzo Zamberletti: tra gli edifici civili andati perduti, l’esempio più significativo nel quartiere Marina è quello del secondo Palazzo Zamberletti. L’edificio concludeva la palazzata di via Roma sul versante della Piazza Amendola e del Viale Regina Margherita e fu uno dei primi edifici della palazzata a venire costruito. Risaliva, infatti, al 1893 e solamente nel 1910 fu affiancato dal Palazzo Ravenna che ne riproponeva il prospetto sulla via Roma dando quindi l’idea di un palazzo ancora più ampio formato dai due edifici distinti. È proprio grazie alla sopravvivenza del palazzo Ravenna, oltre alle foto d’epoca, che è possibile descrivere l’aspetto esterno del Palazzo Zamberletti (non purtroppo quello interno che pure doveva prevedere eleganti sale ben decorate, come si intravvede nelle foto immediatamente successive ai bombardamenti). Esternamente, il palazzo si presentava con tre fronti, quello maggiore sul tratto terminale del Viale Regina Margherita prospiciente la Piazza Amendola, un secondo fronte sulla via Roma dove prospettava con il suo portico a quattro arcate su pilastri, il terzo sulla via Sardegna. Nel prospetto sul Viale Regina Margherita aveva un corpo principale scandito in tre specchi ognuno dei quali con tre aperture per piano; a questo corpo si aggiungeva poi un quarto specchio più stretto corrispondente all’arcata del portico di immissione nella via Roma. In questa facciata, le aperture erano incorniciate da sobrie cornici in ogni piano, con la sola eccezione dei tre balconi centrali del secondo piano e di quelli centrali negli specchi laterali, tutti provvisti di una cimasa sospesa su modiglioni secondo uno schema già realizzato nel primo Palazzo Zamberletti che sorge sul lato opposto della via Sardegna col fronte principale sul viale Regina Margherita. Nel terzo piano, nello specchio centrale si apriva un’elegante loggia formata da tre arcate e chiusa da persiane lignee a tutta altezza.
Il fronte sulla via Roma – come detto, uguale al successivo Palazzo Ravenna – presentava quattro aperture per piano corrispondenti a ciascuna arcata del portico. I balconi erano incorniciati da modanature con cimase a trabeazione realizzate in cotto, di un gusto tipicamente umbertino e molto elegante. I parapetti erano pure in cotto, uguali a quelli del fronte principale. Sul quarto specchio di viale Regina Margherita, come detto corrispondente alla singola arcata su questo lato dell’edificio, gli stessi balconi del fronte di via Roma erano riproposti accoppiati in una composizione a bifora. Un semplice parapetto in muratura concludeva i tre fronti al di sopra del cornicione e fungeva da base per nove busti andati distrutti col palazzo e di cui è ignota l’identificazione.
La vicinanza al porto e alla Dogana espose il palazzo ad ogni singolo bombardamento, probabilmente con danni minori in tutte le incursioni precedenti quelle del Febbraio e Maggio 1943 quando l’edificio fu colpito gravemente. Pur presentando danni ingenti, lo si sarebbe potuto ricostruire facilmente secondo il suo aspetto originario ma l’area fu ceduta all’INA che vi edificò il suo palazzo in uno spoglio e anonimo stile moderno con i fornici delle arcate più alte rispetto a quelle del confinante Palazzo Ravenna producendo quindi un effetto di sgradevole disarmonia.
Casa Cavanna: la casa Cavanna, risalente agli anni ’60 dell’800 fu uno dei primi palazzi realizzati nella via Roma all’indomani della demolizione delle mura sul fronte del porto e delle case che vi erano addossate al lato interno, su quella che era la “Via di San Francesco al Molo”. Data la sua edificazione in un periodo in cui i portici della via Roma non erano previsti per la nuova palazzata, la Casa Cavanna ne era sprovvista e, pertanto, già negli anni ’20 venne condannata alla demolizione in un progetto – mai portato a compimento – che prevedeva la sua sostituzione con una prima sede per la Banca d’Italia. La Casa Cavanna era, prima d’allora, un bel palazzotto di gusto neoclassico ancora influenzato nel suo impianto dalle strutture a lotti gotici di medievale memoria. Al suo pianterreno si trovava il Caffè Inglese (poi Bar Impero), il primo caffè pubblico della Città.
Il palazzo si sviluppava su quattro piani con tre aperture ciascuno. I portali erano sobri e privi di modanature, mentre i balconi dei tre piani superiori erano riquadrati da cornici sormontate da timpani alternativamente triangolari e semicircolari nel primo e nel secondo piano; nel terzo piano le aperture erano concluse con cimase su mensole a volute mentre nel 4° piano si aveva la sola cornice. I parapetti dei balconi erano realizzati con belle balaustre in marmo bianco nei primi due piani mentre una lunga e unica ringhiera in ferro battuto percorreva l’intero fronte del terzo piano. I bombardamenti del Febbraio 1943 – data anche la posizione pressoché centrale rispetto alla via Roma e al fronte portuale – colpirono l’edificio compiendo la demolizione mai effettuata negli anni precedenti e aprendo un grande squarcio su tutta la facciata mettendo in vista l’interno completamente sventrato. L’area risultante dalla sua demolizione e da quella del vicino Palazzo Rossetti (non colpito dalle bombe), rimasta vuota per decenni, è oggi occupata dal Palazzo del Consiglio Regionale.
Stazione Marittima: la Stazione Marittima era un elegante edificio di matrice storicista progettato a metà degli anni ’20 dall’architetto Augusto Valente, già progettista delle Case INCIS di Piazza Galilei. Le foto più note la ritraggono dal lato mare dove prospettava con un portico quadrangolare su pilastri che immetteva in una sala con copertura in metallo e vetro dalla quale si accedeva ai locali attigui per gli uffici. Il prospetto di via Roma era simile ma più ricco nei dettagli: ai pilastri del portico rettangolare si sostituivano delle belle colonne corinzie sorreggenti un portico semicircolare sovrastato da una terrazza su cui svettava il fronte della sala coperta nel quale era incastonato un orologio (se ne parlò anche nell’articolo sugli orologi cagliaritani). Ai lati del portico, due finestre per parte – sormontate da trabeazioni di gusto classico – si aprivano in luogo dei quattro portali presenti invece sul fronte mare. Trovandosi sul Molo Dogana e, quindi, proprio all’imbocco della Darsena, fu da sempre al centro dei bombardamenti e subì inevitabilmente danni in ogni incursione fino alla data fatale del 28 Febbraio 1943 quando venne definitivamente distrutta. Al suo posto oggi sorge un deposito dei Vigili del Fuoco, poco più che un capannone anonimo e impattante nel contesto.
Ci si sposta ora nel quartiere di Stampace che subì danni a seguito delle ripetute incursioni aeree in entrambe le parti che lo costituiscono, Stampace Alto e Stampace Basso. Non vi è, infatti, edificio storico che non fu danneggiato, eccezion fatta per la chiesa di San Michele Arcangelo solamente sfiorata dalle bombe ma, fortunatamente, mai colpita.
Chiesa di Sant’Anna: Venne costruita nella seconda metà del Settecento su una precedente chiesa di impianto romanico che occupava l’area dell’attuale transetto con un campanile situato leggermente distante verso la via Azuni, nella cui demolizione fu rinvenuta una lapide che commemorava l’erezione della Torre della Terzana, lungo le mura stampacine. Nel 1785 si dette il via alla demolizione della vecchia chiesa e alla costruzione della nuova, il cui progetto è attribuito all’Ingegnere piemontese Giuseppe Viana. La chiesa venne progettata fondendo insieme elementi del barocco piemontese con una spazialità tipica del barocco austriaco. Se è vero, infatti, che nella realizzazione della facciata il Viana si ispirò al Duomo di Carignano, la dimensione spaziale interna con l’innestarsi di volumi traversi su una navata ellittica, è debitrice di quella della chiesa di San Carlo a Vienna. L’esterno della Chiesa, sobrio lungo le fiancate, si caratterizza per il bellissimo e articolato prospetto diviso in due ordini da un’alta trabeazione poggiante sulle lesene e sulle colonne ioniche dell’ordine inferiore, il cui specchio centrale concavo ospita il bel portale. L’ordine superiore presenta la stessa dinamicità di quello inferiore ma è scandito da lesene corinzie. Qui, nello specchio centrale, si apre il rosone attorniato da cornice mistilinea di gusto squisitamente barocco. Conclude la facciata un timpano triangolare che segue però la concavità degli specchi centrali. Al di sopra della facciata svettano i due campanili, il primo dei quali concluso entro il 1813, mentre per quello destro bisognerà attendere il 1938. Proprio la lunga vicenda costruttiva della chiesa dal 1785 al 1938 fece nascere il modo di dire “sa fabbrica de Sant’Anna” ispirata al detto “la fabbrica di San Pietro” con chiaro riferimento alla basilica vaticana. L’interno della chiesa di Sant’Anna è formato da una navata ellittica – su cui si affacciano quattro cappelle (due per ogni lato) – oltre la quale si innesta il transetto.
Completa lo schema spaziale il presbiterio oltre il quale si apre il profondo vano absidale in cui è ospitato il coro. Otto tribune si aprono nello spazio di raccordo tra la navata e il transetto, nei due bracci dello stesso e ai lati del presbiterio. La copertura dell’edificio è formata dall’alternarsi di ampie cupole e stretti spazi voltati a botte: la cupola ellittica che copre la navata è seguita da quella ottagonale, più alta, a copertura dell’incrocio col transetto, oltre la quale un terzo cupolino più piccolo, in forma di ottagono allungato traverso, copre il presbiterio. Concludono l’insieme delle coperture la breve volta che raccorda il presbiterio all’abside e il catino semisferico dell’abside stesso. L’interno della chiesa fu arricchito da stucchi che incorniciavano le ampie aperture al di sopra della trabeazione e gli spazi voltati a botte nell’aula e nei bracci del transetto oltre che nei raccordi della cupola della navata. Al di sopra della trabeazione, in corrispondenza delle arcate dei bracci del transetto erano presenti quattro angeli in marmo reggenti i lampadari. Nel 1808 i pennacchi della cupola ottagonale vennero dipinti dal pittore fiorentino Luigi Carneglias che vi dipinse gli Evangelisti realizzando stuccature che consentivano alle teste e alle aureole dei quattro Santi, oltre alle nuvole su cui erano posati, di emergere dalle cornici dei pennacchi con un bellissimo effetto tridimensionale. Al Carneglias venne attribuita la decorazione pittorica dell’intera chiesa, ma si sa per certo che furono sue solo le pitture dei pennacchi mentre il resto degli affreschi, di qualità altrettanto elevata, si devono al pittore lombardo Rodolfo Gambini, già attivo nel nord Italia e autore degli affreschi perduti nella Cattedrale di Iglesias e di quelli ancora presenti nel Duomo di Oristano. A lui si deve quindi l’insieme delle pitture sulle cupole e l’artistica via Crucis un tempo presente in cornici barocche realizzate in stucco come i finti cordoni con nappe che le facevano apparire sospese nelle lesene che scandivano l’aula.
I bombardamenti colpirono in diverse date la Chiesa di Sant’Anna (come descritto nel primo articolo sulle date dei bombardamenti) demolendo quasi completamente la cupola del transetto e il braccio orientale dello stesso con l’intero altare dedicato al Beato Amedeo di Savoia la cui scultura, realizzata dal sassarese Andrea Galassi, fu recuperata e sottoposta ad un delicato intervento di restauro per essere ricollocata nel nuovo altare. Il ripristino delle parti distrutte di Sant’Anna fu al tempo stesso un’opera di ricostruzione e di distruzione poiché fu eliminato l’intero apparato decorativo superstite, prodigiosamente integro nonostante i danni subiti dalla chiesa. Pertanto, oggi è possibile ammirare la serena luminosità dell’interno di Sant’Anna nella concezione spaziale puramente barocca che le diede il Viana, ma priva del ricco apparato decorativo che aggiungeva ulteriore unità all’insieme architettonico.
Chiesa di N.S. del Carmine: la distruzione più grave fu quella che colpì la chiesa di Nostra Signora del Carmine, che dovette essere ricostruita in altre forme (come si vedrà nel terzo articolo sui bombardamenti). La Chiesa fu costruita – con l’annesso convento carmelitano – nel XV secolo secondo uno schema gotico-catalano derivante dai modelli del San Giacomo in Villanova e del Santuario di Bonaria, pur con ampie concessioni a influssi già pienamente rinascimentali operati in ampliamenti del secolo successivo. Come entrambe le chiese sopra citate, anche quella del Carmine aveva originariamente la volta con copertura lignea sostituita – proprio come negli altri due edifici – con una in pietra, voltata a botte a tutto sesto, nel periodo in cui venne ampliato il presbiterio coperto da una cupola ottagona e contemporaneamente all’erezione della Cappella Ripoll, anch’essa coperta da un’analoga cupola (l’argomento delle cupole è stato trattato in questo articolo). All’esterno, la chiesa mostrava un prospetto semplice e quasi anonimo, caratterizzato solo dalla presenza di un bel portale modanato in pietra e sovrastato da una nicchia con una scultura della Madonna del Carmine. L’interno, tutto fuorché anonimo, era formato da un’aula unica e presentava quattro cappelle su ogni lato che, nella fase di ammodernamento di cui si è fatta menzione, vennero rese intercomunicanti mediante la demolizione dei setti divisori in modo da formare due navate laterali. Le volte di queste cappelle/campate erano coperte a crociera con costoloni e gemme pendule. Assai ricco era l’arredo marmoreo e ligneo; particolarmente sontuosi apparivano l’altare maggiore e quello della cappella Ripoll.
Quest’ultima era una bella struttura cupolata formante una chiesuola a sé stante come in altre realizzazioni presenti a Cagliari. Vi si accedeva attraverso un vano voltato a botte con cassettoni decorati a rosoni e punte di diamante secondo uno stile rinascimentale espresso in analoghe volte nella Cappella del Rosario in San Domenico e nel presbiterio di Sant’Agostino Intra Moenia, ripreso poi anche nella realizzazione della volta del Santuario dei Martiri sotto il presbiterio della Cattedrale. L’arco di rinforzo che divideva in due la volta di questo ambiente era decorato con uno straordinario motivo floreale a rosette e tralci di vite su peducci ancora influenzati da uno stile tardogotico. L’altare della Cappella Ripoll, ricco di marmi e con dettagli scultorei di buona fattura, custodiva il simulacro della Madonna del Carmine (in seguito salvatosi dalla distruzione poiché messo al sicuro prima degli eventi bellici); la soprastante cupola di foggia rinascimentale poggiava su scuffie a mezza crociera ancora di matrice tardogotica. Nel presbiterio l’altare maggiore (opera di Giovanni Battista Franco realizzata alla fine del XVIII secolo), pur in una minore qualità rispetto a quello della Cappella Ripoll, si presentava maestoso e ospitava la bellissima pala d’altare dipinta da Francesco Massa con la Madonna del Carmine fra i Santi Alberto e Maria Maddalena De’ Pazzi che, pur giudicata pessima dal Canonico Spano in virtù della sua personale idiosincrasia verso tutto ciò che era stato dipinto o scolpito in epoca barocca e tardobarocca, era un’opera pittorica di alto valore artistico. Nella sua descrizione dell’ambiente presbiteriale lo Spano fornisce interessanti informazioni sull’altare maggiore, ovvero la presenza di una piccola edicola con le reliquie di San Verissimo Vescovo Martire e di Sant’Apollinare cagliaritano, rinvenute nel 1790 proprio quando fu smantellato il vecchio altare per consentire l’erezione di quello realizzato da Giovanni Battista Franco.
Di questa edicola con funzione di reliquiario si recuperò il cupolino che tutt’oggi è conservato in un ambiente interno al convento. Il resto dell’altare scomparve con la demolizione della Chiesa dopo i bombardamenti, nonostante fosse in gran parte sopravvissuto alle bombe. Aveva già subito, comunque, sostanziali modifiche con la rimozione dal dossale marmoreo della pala dipinta dal Massa per realizzarvi una nicchia destinata ad ospitare un simulacro ligneo. Le bombe del 31 Marzo 1943 distrussero la volta della navata e crearono lesioni importanti sulle cappelle laterali tali da non consentirne il recupero. I danni prodotti sul presbiterio non furono così ingenti da distruggerlo nell’immediato ma lesionarono la muratura d’imposta della cupola che dovette essere messa in sicurezza e poi smantellata per evitarne il crollo spontaneo.
Dalla distruzione si salvarono due splendide pale d’altare, quella di Sant’Anna e quella di Sant’Alberto. La prima, opera del 1571 di Girolamo Imperato è realizzata in forma di polittico scandito da colonne corinzie in legno dorato e con un’impostazione rinascimentale di gusto italiano. La Pala di Sant’Alberto dipinta da Francesco Pinna tra il XVI e il XVII secolo con le tavole dell’ordine inferiore riflettenti un gusto ancora legato alla Scuola di Stampace e la tavola superiore, raffigurante la Madonna del Suffragio, già votata ad un manierismo di ambito italiano; la cornice è un’elegante composizione ancora di gusto rinascimentale. Altri elementi della chiesa salvatisi sono: il tabernacolo della Cappella Ripoll ora custodito nel cortile del convento, il cupolino del reliquiario di San Verissimo e Sant’Apollinare e una voluta in marmo entrambi conservati in una sala interna del convento, mentre diversi cassettoni con rosette provenienti dalla Cappella Ripoll sono custoditi nel lapidario cittadino ora allestito presso lo Spazio San Pancrazio.
Monastero di Santa Chiara: del monastero di Santa Chiara si hanno poche notizie circa la fondazione che pure deve ritenersi – come narra anche lo Spano – precedente all’instaurarsi della comunità di monache clarisse nel XVI secolo. A quest’epoca si deve comunque il recupero e l’adattamento del vecchio convento forse appartenuto ad una comunità benedettina. Ciò che è evidente dalle poche immagini che lo ritraggono è lo sviluppo organico e disordinato di un convento ampliato in diverse fasi senza una programmazione globale ma con l’aggiunta di sempre nuovi ambienti con differenti volumetrie. Pure con tale configurazione il convento non era privo di un suo fascino e aveva il suo centro più ordinato in un piccolo chiostro di cui sopravvivono oggi solo le arcate sul lato meridionale mentre gli altri lati vi si affacciavano con aperture regolari (il lato est) o in modo più disordinato come nei lati a nord e a ovest. Il monastero subì comunque un lungo periodo di abbandono e degrado tale che le immagini del 1938 mostrano il lato meridionale del chiostro già parzialmente scoperchiato. I bombardamenti colpirono sia la Chiesa che il Convento, ma nella chiesa provocarono danni lievi e fu quindi possibile recuperarla, mentre l’antico convento non resse all’impatto delle bombe e fu quasi del tutto distrutto.
Nel dopoguerra, anche al fine di rimpiazzare i due Mercati Civici del Largo Carlo Felice, demoliti in maniera scellerata nel 1958, i resti del convento furono trasformati nel Mercato di Santa Chiara. Questo nuovo mercato era sviluppato su due piani, di cui quello superiore occupava lo spazio aperto del chiostro e i suoi lati nord e ovest completamente distrutti mentre per nel lato meridionale sopravvissero le arcate che, opportunamente coperte, furono adibite a botteghe alimentari mentre gli ambienti del lato est, ancora scoperchiati, convissero nel loro stato di abbandono con la struttura commerciale. Il mercato venne parzialmente chiuso negli anni 2000 lasciando in funzione il solo piano inferiore. Lo spazio più prossimo alla chiesa, anch’esso devastato, oggi costituisce l’accesso all’ascensore verso il Cammino Nuovo e qui si conserva ancora una doppia arcata a forte sviluppo verticale oltre la quale dovevano trovare posto le scale che conducevano ai piani superiori con le celle monastiche. Recentemente sottoposta a restauri mai conclusi, non si sa quando l’area verrà riaperta alla fruizione pubblica né con quale funzione.
Chiese di San Giorgio e di Santa Margherita:
In Stampace alto, due antiche chiese subirono lo stesso destino della chiesa di Santa Lucia in Marina, ovvero la loro demolizione dopo aver subito solo danni di lieve e trascurabile entità. La Chiesa di San Giorgio era la più antica delle due e, nella sua ultima veste, si presentava rispondente in pieno ai canoni controriformistici nella loro declinazione sarda. Era quindi una chiesa risalente al XVI secolo ma innalzata sui resti di una precedente, a sua volta costruita verosimilmente nel VII-VIII secolo su quella che era ritenuta la casa natale di San Giorgio Vescovo. L’esterno si presentava semplice e disadorno, dotato del solo portale e di un oculo circolare in asse, mentre il coronamento era a terminale piatto con cornicione in lieve aggetto. L’interno era formato da un’unica navata voltata a botte con tre cappelle per lato, quelle più prossime al presbiterio meno profonde delle altre. All’interno, lo Spano documenta un altare maggiore in legno dorato definendolo maestoso, termine che lo Spano utilizzava con parsimonia, pertanto doveva trattarsi di un’opera lignea pregevole per qualità e notevole per dimensioni. Riguardo gli altri altari non fa menzione se non per i dipinti. Colpita in modo lieve dalle bombe, la Chiesa si mostrava ancora recuperabile al momento in cui vennero ultimati i lavori di restauro della retrostante Collegiata di Sant’Anna. Purtroppo, ne venne decretata la demolizione insieme agli isolati di via San Giorgio e di via Santa Margherita, in parte danneggiati dalle bombe, al fine di allargare la via Santa Margherita alle dimensioni attuali e realizzare un nuovo blocco edilizio sulla via San Giorgio e la via Fara, progetto compiuto solo parzialmente nel tratto prospiciente la via Azuni. L’opera di demolizione delle case si protrasse fino agli anni ’80 con la demolizione dell’ultimo blocco compreso tra l’ex via San Giorgio (inglobata nella via Santa Margherita) e via Fara; lo spazio sgomberato dalle macerie divenne noto come “Campetto di Sant’Anna” poiché adibito a campo di calcio per i ragazzi della parrocchia.
La chiesa di Santa Margherita aveva un’origine più incerta di quella di San Giorgio poiché – pur mostrando i caratteri tipici degli oratori del XVI secolo – le sue origini vengono attribuite al periodo romanico. La chiesetta presentava caratteri d’influsso ancora tardogotico come il portale sovrastato da lunetta con arco a sesto acuto affine a quello della chiesa di San Bartolomeo e a quello della chiesa di Santa Maria del Monte ma ancor più alla chiesa di San Cesello per la presenza di tre oculi circolari in facciata che potavano far ipotizzare una realizzazione ad opera delle stesse maestranze. Il coronamento del prospetto era a terminale piatto. L’interno, di modeste dimensioni, riceveva luce dai soli tre oculi del prospetto e si distingueva per il caratteristico altare con paliotto in marmi policromi e triplice gradino in legno dipinto e dorato al di sopra del quale vi era un singolare dossale dipinto a trompe-l’œil – l’unico del genere in tutta Cagliari – a incorniciare in una finta architettura la nicchia con la statua di Santa Margherita, opera del XVIII secolo di Antioco Efisio Castangia a cui forse potevano essere attribuite anche le due statue nelle nicchie ai lati dell’altare, anch’esse incorniciate con un’architettura dipinta a trompe-l’œil come pure lo era l’arco decorato a motivi vegetali e con ricco drappeggio dipinto sulla parete di fondo dell’aula a incorniciare il dossale dell’altare. Completava l’arredo della chiesa un semplice pulpito ligneo con scala a vista interna all’aula.
Un’immagine dell’interno successiva ai bombardamenti (visibile qui sopra), scattata in occasione dei rilievi per verificarne la stabilità, mostra la chiesa ancora ben integra, con addirittura l’altrare correttamente arredato e persino lo spegnitoio per le candele poggiato alla sinistra del presbiterio. Al momento in cui venne scattata la foto la chiesa mostrava ancora una possibilità di recupero. I bombardamenti avevano infatti colpito e in parte distrutto gli edifici confinanti sulla fiancata meridionale, in seguito demoliti poiché troppo pericolanti, con un intervento che rese necessario il puntellamento della muratura della chiesa; dalle foto successive a questa demolizione è evidente la formazione di una lunga crepa che percorreva il muro di fondo della chiesa sul lato sinistro, crepa verificabile anche nelle foto degli esterni del lato posteriore dell’edificio. Questa crepa minacciava il crollo della parete sinistra e quella di fondo della chiesa, ed era ancora sanabile ma con un intervento ormai diventato difficile e sicuramente costoso al quale fu preferita una più economica e drastica demolizione, soprattutto se accompagnata da un risarcimento per danni bellici. Sul luogo in cui sorgeva la chiesa oggi scorre la via Santa Margherita nella dimensione più ampia, mentre l’area su cui sorgeva la Chiesa di San Giorgio oggi fa parte dello sterrato noto come “Campetto di Sant’Anna”.
Sale del Palazzo Civico: sebbene il Palazzo Civico abbia beneficiato di un accurato lavoro di ricostruzione parziale e di un restauro complessivo, è necessario menzionarne gli interni come opere andate perdute visto anche l’alto valore artistico dei loro ricchi apparati decorativi.
Il Palazzo Civico sorse a partire dal 1899 sul luogo di una precedente fabbrica di gazosa, in un punto strategico per lo sviluppo della Città del XIX-XX secolo: la parte bassa del quartiere di Stampace nell’area in cui si incontravano gli edifici della nuova e ricca borghesia (i palazzi della via Roma e del Largo Carlo Felice), le principali infrastrutture (il Porto e la Stazione) e dove la popolazione cittadina aveva ormai trovato il suo nuovo salotto buono lontano dalle strade medievali del quartiere Castello. Il progetto scelto, tra i tre finalisti (“Sideras”, “Majestas IV” e “Palmas”) fu il “Palmas”, ad opera di Crescentino Caselli e Annibale Rigotti, che si caratterizzò da subito come una delle più notevoli realizzazione dello Stile Liberty in Italia, mentre gli altri due progetti risentivano di uno storicismo di stampo umbertino ormai superato. La posa della prima pietra avvenne alla presenza dei reali d’Italia, e l’edificio potè dirsi concluso già nel 1906 e inaugurato nel 1907. La costruzione, tuttavia, non potè dirsi compiuta almeno fino alla prima metà degli anni ’10 quando furono ultimati i lavori di decorazione delle sale interne con l’inserimento delle splendide opere pittoriche di Filippo Figari, alcune delle quali fortunatamente salvatesi dalla distruzione bellica.
Il Palazzo si presenta esteriormente nella sua veste originaria, prontamente e accuratamente restaurata dopo i bombardamenti senza modifiche sostanziali. Lo sviluppo dell’edificio avviene attorno alla grande corte interna anch’essa ricostruita senza però ripristinare l’originaria copertura in pietra, ferro e vetro. L’esterno si caratterizza per l’uso della bianchissima pietra forte di Bonaria alternata a marmi verdi per le cornici delle finestre sul primo piano e per le ampie superfici decorate con bronzi allegorici ad opera dello scultore Andrea Valle. Le due torri sul prospetto principale non vennero lesionate dai bombardamenti, sono pertanto tra i pochi elementi dell’edificio, oltre alla facciata, ad essere rimasti del tutto inalterati durante i lavori di ricostruzione e restauro.
Gli ambienti colpiti dalle bombe erano per la maggior parte concentrati sull’ala di via Crispi, ma tutto il palazzo fu colpito dalle bombe e perse, infatti, anche l’originaria Sala del Consiglio sul fronte di via Roma. La decorazione delle sale, di gusto marcatamente liberty, era caratterizzata da una declinazione eclettica che riuniva stilemi ispirati allo stile gotico-catalano con elementi tipici della tradizione architettonico/artistica/artigiana sarda, fino alle influenze più pure dell’Art Nouveau. Tra gli ambienti perduti si annovera quindi il grande Salone di Ricevimento al pianterreno con accesso sia dalla via Crispi, sia dalla corte centrale tramite una porta – nel primo pianerottolo della monumentale scalinata -incastonata in una trifora abbellita all’epoca con un’elegante vetrata con motivi floreali policromi. Le pareti della sala erano scandite da esili lesene (ispirate ai pilastrini delle architetture civili e religiose gotico-catalane) oltre le quali correva un fregio a fondo scuro su cui spiccavano le aquile in stucco. Sul soffitto del salone tre grandi medaglioni inquadrati da ricche cornici in stucco (e alternati a due medaglioni più piccoli decorati con stemmi) ospitavano tre dipinti di Filippo Figari con scene della storia cittadina (l’”allegoria di Cagliari Ospitale”, lo “Stemma di Cagliari tra due Mori”, la “Bandiera sulla Torre Pisana”) dipinti fra il 1913 e il 1916. Sui sovrapporta nelle due aperture dei lati corti erano invece incorniciati “Il Cavaliere Pisano” e “il Miliziano Sardo”, anch’essi del Figari.
La Sala dei Consiglieri (visibile nella foto qui sopra) era quella che, per stile, si avvicinava maggiormente ai dettami della Secessione Viennese e si caratterizzava per gli aggraziati nudi telamonici che affiancavano le porte e sorreggevano il soprastante fregio in cui un corteo vagamente spettrale di genietti dalle figure infantili rappresentava la mietitura e la raccolta del grano. Tra le due porte vi era un apparato decorativo formato da due medaglioni con decoro spiraliforme bicromo sovrastati da uno spazio a forma di Tau ospitante l’effigie della Madonna dei Consiglieri. Al di sopra di questo spazio si inserivano due ulteriori nudi in posa drammatica.
La perdita più grave riguarda però il Salone del Consiglio, seppur ricostruito in uno stile elegante ma spoglio. Il bellissimo salone era ancora ispirato all’architettura gotico-catalana nella composizione architettonica ma con un gusto smaccatamente liberty nei decori. Il Salone occupava – come avviene tuttora – due piani del palazzo ed era diviso in due ordini.
Quello inferiore ospita tuttora la Tribuna del Consiglio, quello superiore presenta due palchi su ogni lato corto, mentre il lato lungo a occidente era occupato interamente dall’ampia vetrata sulla via Roma e quello opposto ospitava altre grandi pitture di Filippo Figari (preventivamente messe in sicurezza e riposizionate nel nuovo salone) nell’ordine superiore, mentre in quello inferiori diversi riquadri incornciavano un fregio con appellativi della Città di Cagliari ed erano ornati da ghirlande. Il fregio si interrompeva in corrispondenza della porta aperta alle spalle del seggio del sindaco, la quale era affiancata da due bellissimi elefanti in stucco che rimandavano all’elefante dell’omonima torre-simbolo cittadina. Il soffitto era splendidamente ornato da cassettoni con foglie di palma nel registro più vicino alle pareti, da ghirlande floreali in quello centrale e da grandi aquile ad ali spiegate – chiaro richiamo alla reggenza sabauda – nei quattro scomparti mediani. Oltre alle sale andò perduta la copertura in ferro e vetro posta a protezione della grande corte centrale; questa copertura era caratterizzata da una balaustra in pietra – ornata con trafori di matrice neogotica alternati a stemmi tra foglie di palma – sulla quale si impostava la struttura metallica a padiglione.
Le bombe del 26 Febbraio 1943 colpirono per la prima volta in modo serio l’edificio (fino ad allora bersagliato dagli spezzoni e dalle schegge derivanti dalle esplosioni al suolo) provocando il crollo quasi totale dell’ala su Via Crispi e mandando in cenere parte dell’Archivio Storico che si trovava nei locali dei piani superiori, mentre le incursioni successive proseguirono l’opera di devastazione colpendo l’ala principale dove andò distrutto il Salone del Consiglio. I lavori di ricostruzione cominciarono nel 1946 e si conclusero nel 1953, ripristinando gli ambienti nella loro forma originaria non replicando però lo stile decorativo che aveva reso unico l’edificio.
Villanova fu uno dei rioni più colpiti nell’edilizia civile e tuttora sono presenti ampi vuoti di guerra mai sanati (trovate qui l’articolo sulle cicatrici lasciate dai bombardamenti) mentre il patrimonio architettonico religioso subì perdite gravi nel solo settore nord-orientale del quartiere dove tre edifici religiosi subirono danni tali da non poter essere ricostruiti secondo il principio del “com’era/dov’era”, ma fu necessario sostituirli con chiese nuove.
Le tre chiese colpite si trovano tutte in un’area ristretta compresa tra la Piazza San Domenico, la via Bosa e il tratto terminale della via San Giacomo. Riguardo due di questi edifici, la Cappella dell’Istituto Carlo Felice e quella dell’Istituto delle Missioni (ora chiesa di San Vincenzo De’ Paoli) non si hanno notizie o materiale fotografico a documentarne l’aspetto prebellico. Si parlerà di loro, pertanto, nel terzo articolo sui bombardamenti che sarà relativo alla ricostruzione.
Chiesa di San Domenico:
Sulla chiesa di San Domenico invece è molto più vasto il patrimonio storico/documentario/fotografico. La Chiesa venne eretta nel XV secolo a breve distanza dalla prima chiesa di Sant’Anna (se ne parlò più approfonditamente nell’articolo sulle Madri a Cagliari) eretta a seguito dell’instaurazione della comunità monastica ad opera del senese Nicolò Fortiguerra nel 1254. La chiesuola di Sant’Anna oggi è parzialmente esistente e inglobata nel braccio orientale del Chiostro. La Chiesa di San Domenico presentava dimensioni decisamente maggiori rispetto a quella di Sant’Anna, come richiedeva l’accresciuto numero di monaci nel convento ed era stata edificata secondo canoni gotico-catalani in forma di un’unica e ampia navata divisa in due campate (forse originariamente tre) voltate a crociera. Si accedeva alla chiesa tramite un piccolo ambiente con ingresso nella via San Domenico dal quale una rampa di scale conduceva in basso all’aula della chiesa. Questo vano era stato realizzato verosimilmente sul luogo di una precedente campata andata perduta. La prima campata che si incontrava all’interno della chiesa era più alta della seconda ed era caratterizzata da una volta stellare costolonata con ben 17 gemme pendule negli incroci delle nervature, la seconda campata invece presentava una volta più semplice, sempre a crociera costolonata con sole 5 gemme pendule. Su ogni campata si affacciavano due cappelle per lato, ad eccezione del lato meridionale della seconda, dove invece si apriva l’arcata che immetteva nel chiostro e una cappella meno profonda delle altre, per un totale di sette cappelle cui si aggiunse, alla fine del XVI secolo, la Cappella del Rosario a cui si accedeva dalla mezza campata con volta ogivale che immetteva all’ambiente presbiteriale. Sul lato opposto, nella stessa mezza campata, si aveva un’altra piccola cappella in forma di nicchia, mentre due ulteriori cappelle affiancavano la Cappilla Mayor del presbiterio e un’altra si affacciava sul vano di accesso alla cappella del rosario, per un totale di ben tredici cappelle. La sistemazione dell’ambito presbiteriale con due cappelle affiancanti la Cappilla Mayor (qui coperta con volta a crociera costolonata) derivava dal modello della Cattedrale di Girona, da dove proviene anche la sistemazione delle due cappelle per ogni campata. Tale concezione spaziale della navata è riscontrabile spesso nell’architettura gotico-catalana in Sardegna e in particolare a Cagliari, come avviene nelle Chiese di Sant’Eulalia e della Purissima.
La Cappella del Rosario in San Domenico era coeva alla Cappella Ripoll del Carmine e probabilmente venne edificata dalle stesse maestranze vista anche la somiglianza che le univa. Si accede tuttora a questa cappella, come avveniva anche in quella della chiesa carmelitana, da un vano voltato a botte con cassettoni decorati a rosette e punte di diamante. L’ampio spazio interno della cappella – tale da costituire una chiesetta a sé posta trasversalmente alla principale – è coperto da una cupola su scuffie gotiche a mezza crociera poggianti su peducci con motivi vegetali. Le immagini che documentano l’aspetto interno della Chiesa di San Domenico la ritraggono in due momenti diversi. Un primo insieme fotografico (facente parte della Collezione Alinari) mostra ancora l’estensione della cantoria su metà della prima campata con ballatoi lignei chiusi da gelosie che si protraevano fino all’ambiente presbiteriale. La cantoria era dotata di un bel leggio ligneo ascrivibile al XVI secolo lavorato a intagli con motivi tipici della tradizione sarda rielaborati in stilemi catalani. In queste immagini è visibile anche un ricco affresco sulla parete presbiteriale, formato da motivi vegetali a girali d’acanto. Questo ricco e antico apparato fu eliminato con un restauro degli anni ’10-’20 e le foto precedenti la distruzione mostrano infatti la cantoria ridotta alla sola metà della prima campata (accessibile attraverso due porte con cornici di foggia rinascimentale riscontrabili anche nell’arcata che collega il braccio sud a quello est nel chiostro), mentre la seconda campata – ormai sgombra dai ballatoi che la rendevano angusta – si ripresentava nella sua ampiezza e nella sua luminosità originarie. Tra le due cappelle della seconda campata era presente un pulpito ligneo finemente intagliato con figure di santi e sorretto da una colonna in granito salvatasi e visibile tuttora nella chiesa inferiore.
Con i bombardamenti venne gravemente danneggiata la Cappella del Rosario dove la cupola fu quasi del tutto distrutta e andò perduto il meraviglioso retablo della Cappella del Rosario, come pure avvenne per quello ancor più maestoso dell’altare maggiore. La chiesa vera e propria fu invece completamente distrutta e poterono essere salvate le sole cappelle laterali anch’esse gravemente provate dalle esplosioni. Come si vedrà nel prossimo articolo, non fu più possibile recuperare le forme originarie dovendosi ricostruire i singoli elementi delle volte, quali in particolare le gemme pendule e i conci dei costoloni, polverizzati dal bombardamento. Si optò quindi per una soluzione che inglobò gli spazi superstiti come chiesa inferiore sovrastata dalla chiesa nuova progettata da Raffaello Fagnoni. Più agevole fu il recupero del Chiostro, danneggiato dai crolli negli ambienti del convento ma ancora in piedi in tre bracci, mentre fu necessario ricostruire quello settentrionale.
Basilica di Bonaria: l’idea di una grande basilica da costruirsi accanto all’antico Santuario di Nostra Signora di Bonaria rispecchia la storia cagliaritana e sarda dei primi decenni del XVIII secolo, essendo infatti stata ipotizzata – forse in parte cominciata – ancora durante il dominio spagnolo nel 1704, per poi subire interruzioni con l’entrata al dominio in Sardegna degli Asburgo nel 1708 per cui dal 1813 l’Isola divenne effettivo dominio austriaco. Nel 1718 però il Trattato di Londra concesse la Sardegna ai duchi di Savoia che poterono finalmente vantare un proprio trono proprio come Reali di Sardegna. Nel 1720 giunse a Cagliari con truppe sabaude l’ingegnere militare Antonio Felice De Vincenti che riprese in mano la costruzione della nuova basilica riprogettandola a partire dalle basi e per la quale venne realizzato il prezioso modellino ligneo attualmente custodito presso la facoltà di Ingegneria e Architettura nei locali del complesso mauriziano in Castello. Tuttavia, anche questo progetto venne interrotto per la scarsità di fondi dovuta alle guerre intraprese in quegli anni dal regno sabaudo e la costruzione della chiesa – per la quale si erano già erette nel 1764 le colonne binate tuttora presenti – si interruppe sino al 1778 quando il progetto venne rielaborato dall’ingegnere Giuseppe Viana che ne ridimensionò la mole prevista secondo uno stile più sobrio e già aperto ad influenze neoclassiche.
Il progetto del Viana è quello che venne effettivamente portato a compimento, ma i lavori si protrassero ben oltre il previsto a causa di nuove interruzioni sempre per ragioni di fondi e per la soppressione degli ordini religiosi nel 1866 che, con l’espulsione dei Mercedari dal convento, rese superfluo il completamento della costosa basilica le cui murature erano già state innalzate e abbandonate da quasi un secolo. Agli inizi del XX secolo i Mercedari poterono rientrare in possesso del loro convento e dal 25 Aprile 1910 ripresero i lavori di costruzione della basilica che furono portati a termine velocemente (anche grazie all’uso del cemento armato, il primo caso di edificio ecclesiastico in Italia costruito con tale materiale). Nel 1918 la chiesa poteva dirsi architettonicamente compiuta ma mancava ancora del ricco apparato decorativo realizzato entro il 1926, anno della consacrazione. La chiesa così ultimata si presentava, come ora, con un’ampia aula trinavata (è la chiesa più grande della Sardegna) in cui le navate laterali sono divise in quattro campate su cui affacciano le cappelle. All’incrocio tra la navata centrale e l’ampio transetto si eleva – altro record – la cupola più alta della Sardegna, ben 52 metri. Conclude la chiesa il vano presbiteriale col profondo abside quadrangolare. La decorazione pittorica della volta e della cupola fu realizzata dal pittore sardo Antonio Ghisu, cui è attribuita anche la progettazione degli stucchi a cassettoni ottagonali che decorava le volte della navata e del transetto. L’opera di decorazione si concluse con la costruzione del bel baldacchino in marmi policromi e bronzo negli anni ’20.
I bombardamenti risparmiarono il convento e il Santuario ma la Basilica fu colpita il 13 Maggio 1943 da una bomba che esplose provocando una profonda fossa nel pavimento e uno spostamento d’aria che distrusse la bella vetrata del prospetto e sgretolò gran parte degli stucchi sulle volte. Crollò anche una parte della volta nel portico, mentre nella cupola andò perso il rivestimento in piastrelle di porcellana bianca realizzate dalla celebre ditta Ginori. I lavori di ricostruzione postbellica si protrassero fino agli anni ’50 e furono l’occasione per portare a termine definitivamente l’edificio con la realizzazione di una vera faccia di cui fino al 1953 la Basilica era rimasta priva (maggiori informazioni e foto d’epoca si trovano nell’articolo sui cambiamenti nelle facciate cagliaritane) e la decorazione pittorica degli altari laterali. Purtroppo, il costo ingente e le limitate risorse disponibili nel dopoguerra non consentirono il ripristino degli stucchi e delle pitture, anche per la ricchezza che li aveva caratterizzati e che ora li rendeva altamente costosi, pertanto le volte furono lasciate lisce così come si presentano ora ad eccezione degli archi di rinforzo su cui venne ripreso il motivo decorativo geometrico degli intradossi delle arcate che scandiscono la navata centrale separandola da quelle laterali.
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