L’articolo di oggi tratterà di un importante manufatto presente un tempo all’interno della Chiesa di Santa Rosalia, poi scomparso per oltre cinquant’anni e dal Dicembre 2020 nuovamente visibile nella sua nuova sede, la chiesa di Sant’Antonio a Quartu Sant’Elena. Si tratta dell’altare con ciborio, al di sotto del quale erano ospitate le reliquie di San Salvatore da Horta, che venne smontato nel 1967 in adeguamento ai nuovi canoni postconciliari.
È il secondo caso di donazione di arredi marmorei provenienti da una chiesa cagliaritana, dopo quella avvenuta nel 2006 quando alla Basilica di Sant’Elena fu donata la struttura in marmo proveniente dal Duomo e che ospitava la cassa con le reliquie di sei Santi Martiri cagliaritani (Fabrizio, Giovenale, Ilario, Martino, Ninfo e Siridonio), fungendo anche da dossale dell’altare maggiore e su cui posava il tabernacolo d’argento eseguito da un ignoto argentiere palermitano nel 1610. Il suo smantellamento fu dovuto, anche stavolta, ad un tardivo adeguamento del presbiterio della primaziale alla nuova liturgia prevista dalla Institutio Generalis Missalis Romani. Oggi, la preziosa struttura in marmi policromi, è ospitata nella Cappella del Santissimo Sacramento della Basilica di Sant’Elena Imperatrice, dove è stata reimpiegata come dossale d’altare su cui è installato il nuovo tabernacolo.
Il Ciborio della chiesa di Santa Rosalia venne realizzato nel 1931 dai fratelli Antonio e Andrea Usai, entrambi allievi del Sartorio di cui, come vedremo, si sente l’influenza nella parte dell’apparato scultoreo dovuta più probabilmente ad Antonio Usai che al fratello, meno condizionato dalla figura del maestro (in particolare gli angeli e il Redentore sul timpano). Il nuovo altare si rese necessario in vista della canonizzazione di San Salvatore da Horta, avvenuta nel 1938.
Le spoglie di San Salvatore vi vennero ospitate al termine di diversi spostamenti tra le chiese cagliaritane e all’interno della stessa chiesa di Santa Rosalia, e non sarebbe stato nemmeno l’ultimo spostamento.
San Salvatore da Horta nacque in una famiglia il cui cognome era Grionesos a Santa Coloma de Farnès, in Spagna, la Vigilia di Natale del 1520. Fu accolto, appena ventenne, nel convento benedettino di Montserrat (nel comune spagnolo di Monstirol de Montserrat) dove venne ordinato fratello laico. Trasferitosi nel convento francescano di Barcellona, qui prese i voti e si trasferì l’anno successivo a Tortosa dove, però, la fama derivante dai miracoli che operò provocò l’ostilità dei suoi confratelli e dei superiori, che lo scambiarono per invasato. Queste incomprensioni comportarono diversi trasferimenti in altri conventi, da Reus a Belpuig fino a Barcellona, ma ovunque la fama di taumaturgo lo precedeva e l’accorrere di folle di bisognosi e fanatici lo pose in cattiva luce nei confronti della comunità religiosa. Venne processato dall’Inquisizione e non solo fu assolto, ma esaltato dagli stessi inquisitori. Mistico e veggente, continuò ad operare miracoli e subire l’inimicizia dei confratelli. A Barcellona gli venne dato il foglio di obbedienza che impose l’ennesimo trasferimento, stavolta a Cagliari, città da lui desiderata come ultima patria. La scelta di Cagliari è stata per secoli al centro di diverse ipotesi: fu ipotizzato infatti che San Salvatore fosse di origine sarda, dato che i genitori ne conoscevano la lingua. Quale che fosse la ragione, San Salvatore giunse a Cagliari nel novembre del 1565 e qui visse nel Convento di Santa Maria di Gesus – nel luogo in cui ora sorge l’ex Manifattura Tabacchi – fino alla morte avvenuta in odore di santità il 18 Marzo 1567.
Le sue spoglie furono custodite nello stesso convento di Gesus, forse non in modo del tutto sicuro poiché nel 1607 un frate fanatico riuscì a rubare il cuore di San Salvatore e a portarlo con sé nel convento francescano di San Pietro di Silki, a Sassari, dove tuttora si conserva incorrotto. Il processo di beatificazione fu aperto nel 1606 da Papa Paolo V dietro richiesta di Filippo II di Spagna e il titolo di Beato fu confermato nel 1711 da Clemente XI. Dopo il furto del cuore e dopo la beatificazione, le sue spoglie continuarono però il pellegrinaggio tra le chiese cagliaritane. La posizione del Convento di Gesus fu sempre ritenuta pericolosa poiché il cenobio si trovava al di fuori delle mura cittadine e a poca distanza dal litorale portuale. La prova di ciò si ebbe nel 1717, quando l’esercito spagnolo deciso a riconquistare il possesso di Cagliari e della Sardegna – passate sotto il dominio austriaco a seguito del trattato di Utrecht nel 1713 – attaccò la città dal mare con un bombardamento che colpì proprio il convento e la chiesa di Gesus, quasi del tutto distrutta. A seguito di questo disastroso evento, la comunità religiosa si divise in altri conventi: una parte dei confratelli si trasferì nel convento di San Lucifero e altri decisero di restare in ciò che rimaneva del convento di Gesus, mentre il gruppo più numeroso si trasferì nel convento di San Mauro, il più sicuro poiché più distante dal porto, portando con sé le reliquie di San Salvatore. Qui le spoglie furono ospitate in un’arca in pietra tuttora conservatasi in una delle cappelle sul fianco sinistro della chiesa; al di sopra dell’arca, una nicchia di gusto cinquecentesco ospita, all’interno di un oculo circolare ornato da una raggiera e quattro angeli di fattura recente, un reliquiario in argento con una scapola del Santo.
Al di sotto dell’oculo vi è un dipinto su tavola raffigurante San Salvatore sul letto di morte attorniato da angeli. Nel 1720, in seguito al passaggio dal dominio austriaco a quello sabaudo con cui sembrava essere arrivata anche la pace, la comunità religiosa ancora in parte presente nel convento di Gesus chiese di poter rimettere in piedi il convento e parte della Chiesa; il permesso fu concesso loro a patto di fortificare l’edificio che, pertanto, divenne scomodo per la vita monastica al punto da spingere i frati a cederne il terreno ai governatori sabaudi in cambio di una nuova sede che venne identificata nell’Oratorio di Santa Rosalia, retto dalla comunità dei Siciliani.
L’Oratorio di Santa Rosalia sorse sull’area di un piccolo oratorio precedente facente parte di un monastero benedettino qui instauratosi a partire dal 1604 quando all’ordine religioso venne ceduto il terreno nella parte alta del quartiere Marina in cambio del loro vecchio convento nel quartiere Castello, destinato a ospitare la prima sede dell’Università di Cagliari, sul luogo in cui oggi sorge il Palazzo Giustiniani. Al piccolo convento della Marina era annesso l’oratorio, dedicato alla Madonna del Monserrato, da cui prese il nome l’attiguo bastione tuttora esistente e su cui sorge l’ampia mole dell’ex Albergo Scala di Ferro. Nel 1655, al fine di rendere grazie a Santa Rosalia, cui Cagliari si era rivolta per chiedere la cessazione dell’ennesima pestilenza che afflisse la Città, venne eretto il nuovo oratorio concesso alla Confraternita dei Siciliani. Con la richiesta da parte dei frati del Convento di Gesus per una nuova sede, la Confraternita dei Siciliani fu costretta – a seguito di diverse pressioni – a cedere l’Oratorio riuscendo però ad ottenere l’intitolazione della nuova Chiesa alla Santa palermitana. Per la realizzazione della nuova chiesa e del convento vennero distrutti gli edifici preesistenti.
La posa della prima pietra avvenne nel 1741; il progetto per il nuovo edificio religioso, per l’attiguo convento e per il portico che dovette raccordarli (poiché chiesa e convento si trovavano su due lati opposti dell’attuale Via Principe Amedeo) fu affidato all’Ingegnere militare Augusto della Vallea. I lavori si protrassero ben oltre il previsto e si conclusero solo nel 1780, al punto che i frati dovettero trasferirsi nel convento quando i lavori erano ancora in corso. In questa nuova e ampia chiesa vennero trasportate le reliquie di San Salvatore da Horta che furono traslate nella Cappella della Concezione, attualmente dedicata al Sacro Cuore, la terza sul fianco sinistro della Chiesa e quella da cui si accede agli ambienti conventuali. In seguito, le reliquie furono trasferite nella seconda cappella del fianco destro, dove le vide anche il Canonico Spano che ne parlò nella sua Guida della Città di Cagliari del 1861: «La seconda cappella è dedicata al B. Salvatore da Horta dacché vi furono deposte le sue reliquie nel 1844, mentre prima riposavano nella cappella della Concezione, l’ultima a man sinistra. Prima era della vergine di Trapani, della quale nella nicchia di sopra esiste il simulacro. Si può osservare il bel tabernacolo in forma di tempietto lavorato in tartaruga ed ebano, ed adorno di fregi e statuette di bronzo dorato. Nel piccolo sportello avvi un piccol dipinto sul rame dell’Annunziata. Sotto la mensa giace il corpo del B. Salvatore: al lato sinistro avvi un basso rilievo dello stesso beato con varie figure storpie che implorano da lui la guarigione: opera molto grossolana. Attorno vi è scritto “Hic est condituim corpus Salvatoris ab Horta die XVII Juliii MDCXXVIIII. Multitudo languentium veniebat ad eum et curabuntur”. Attualmente l’ex Cappella di San Salvatore è dedicata alla Madonna di Lourdes.
Nel 1931, in vista della canonizzazione di San Salvatore avvenuta nel 1938, fu finalmente predisposta la risistemazione del presbiterio con l’erezione di una struttura monumentale che ospitasse in modo degno le spoglie del Santo. Come detto in apertura, il lavoro fu affidato ai fratelli Usai, scultori sassaresi allievi del Sartorio e trasferitisi a Cagliari. Per il nuovo presbiterio progettarono anzitutto una nuova recinzione in marmo bianco con balaustre classiche ed eleganti. Il nuovo altare maggiore venne sovrastato dal ciborio in cui fu alloggiata la teca in cristallo e bronzo dorato dove furono deposte le spoglie di San Salvatore. Questo importante altare dovette essere smontato poco più di trent’anni dopo, nel 1967, quando il presbiterio fu adattato al nuovo canone postconciliare che suggeriva la funzione della messa versus populum (a maggior ragione in chiese come Santa Rosalia che presentano l’asse oriente-occidente e che quindi vedevano, nel caso della messa “Versus Deum”, il celebrante rivolto comunque verso la direzione sbagliata, ovvero a Occidente): il ridotto spazio presbiteriale – come si presentava all’epoca – non consentiva la collocazione di un altare provvisorio posto davanti a quello originario (come venne fatto in altre chiese, su tutte la Cattedrale) e fu quindi necessario ridisegnare interamente il presbiterio. L’opera fu affidata all’architetto Gina Baldracchini che disegnò un nuovo altare con la mensa sorretta da quattro angeli e sotto la quale venne ospitata la teca di San Salvatore, oltre a farsi interprete della nuova decorazione del vano absidale e dei nuovi accessi verso gli ambienti conventuali dal presbiterio.
L’altare realizzato dagli Usai fu quindi smontato e conservato negli ambienti seminterrati del Convento di Santa Rosalia per più di mezzo secolo, fino al suo ritorno alla luce nel 2020 quando venne donato al Convento di Sant’Antonio da Padova a Quartu Sant’Elena per essere rimontato nel presbiterio che necessitava di una nuova sistemazione.
La Chiesa di Sant’Antonio da Padova a Quartu ha una storia relativamente recente: fu costruita a partire dal 1897 sul luogo di una preesistente chiesa dedicata a San Gregorio Magno. L’edificio poté dirsi concluso nel 1904, quando venne eretto il piccolo campanile laterale, ma la chiesa fu consacrata solamente tre anni dopo. L’impianto, a croce greca, è preannunciato da uno svelto prospetto di stile neogotico, da cui si accede ad un interno che fonde elementi neogotici e neoclassici, come le arcate a sesto acuto che mettono in comunicazione le quattro cappelle laterali con i bracci del transetto, e le arcate a tutto sesto che invece immettono direttamente dall’aula nelle suddette cappelle.
La cupola, ben proporzionata, è a pianta ottagonale. Originariamente la chiesa era dotata di un suo bell’altare neoclassico, forse qualitativamente non eccelso, ma sicuramente imponente per lo sviluppo fortemente verticale e ben inserito nell’ambiente presbiteriale. Questo primo altare venne demolito anch’esso negli anni ’60 in concomitanza con i nuovi canoni liturgici suggeriti dopo il Concilio Vaticano II e al suo posto venne realizzato un nuovo altare (reimpiegando i parapetti del pulpito) oltre a un discutibilissimo dossale ospitante il tabernacolo e formato da una scultura mistilinea dalla forma vagamente uterina e poco consona al sobrio interno dell’edificio. L’altare con ciborio proveniente dalla Chiesa di Santa Rosalia si inserisce invece perfettamente nella chiesa di Sant’Antonio, in un rapporto armonico persino superiore a quello che aveva con la chiesa da cui proviene, e sembra quasi esser stato realizzato proprio per la sua collocazione attuale.
La struttura è divisa in tre registri: la mensa dell’altare, il gradino d’altare che ospita il tabernacolo e il ciborio al di sotto del quale oggi è posto un simulacro recente ma di buona fattura raffigurante Sant’Antonio da Padova. La mensa dell’altare poggia su quattro colonne in breccia di marmo rosato con venature grigie, i cui capitelli sono realizzati in bronzo e formati ciascuno da un gruppo di quattro aquile.
Al di sotto e ai lati della mensa, cinque pannelli in bronzo – di cui quello centrale è rotondo – separati dalle modanature in marmo bianco rappresentano scene della vita di San Salvatore: i due pannelli laterali e quello centrale descrivono le guarigioni prodigiose operate dal Santo, il secondo pannello mostra invece l’arrivo a Cagliari di San Salvatore, su una piccola imbarcazione, mentre una folla in preghiera lo attende al porto; il quarto pannello descrive invece la scena della morte di San Salvatore, pianto dai confratelli inginocchiati al suo capezzale, all’interno del convento di Gesus.
Il gradino d’altare ospita, al centro, il tabernacolo su due colonnine analoghe a quelle della mensa, con piccoli capitelli in bronzo e un terminale timpanato che riprende le forme del soprastante baldacchino. La porta del tabernacolo è in argento e riprende la scena della chiamata dei primi due apostoli, Andrea e Simone. Nella piccola lunetta soprastante è il Sacro Cuore in gloria fra due angeli. Il gradino è scandito in tre specchi ai lati del tabernacolo, in ognuno dei quali è ospitato un piccolo pannello in bronzo con scene della Vita di Gesù, separati da rappresentazioni di religiosi dell’ordine francescano. I due pannelli agli estremi del gradino sono ora andati perduti. Sul lato sinistro, il pannello rettangolare a lato del tabernacolo rappresenta l’ultima cena in una replica bronzea del celebre Cenacolo leonardesco, probabilmente in derivazione della copia eseguita dal Marghinotti per la chiesa di Sant’Eulalia. È inconfondibile la posa degli Apostoli e la composizione del gruppo scultoreo oltre alla forma dei sostegni della tavola. Il pannello rettangolare sul lato opposto del tabernacolo rappresenta invece la moltiplicazione dei pani e dei pesci sullo sfondo di uno scabro paesaggio con palme, mentre il secondo pannello a destra raffigura la Cena in Emmaus, in una collocazione insolita poiché è usualmente rappresentata negli sportelli dei tabernacoli. L’ultimo pannello, come detto, è mancante.
Ai lati del gradino vi sono le basi su cui posano due figure stanti che rappresentano le personificazioni della Castità e della Povertà, attributi dei francescani, per cui ben si adattavano al ciborio quando ospitava le reliquie di San Salvatore e ben si prestano ora alla rappresentazione delle virtù di Sant’Antonio da Padova, il cui simulacro occupa lo spazio interno al ciborio. La scultura della Castità mostra una figura femminile severamente vestita di un abito ampio che ne nasconde le forme, reggente in mano un mazzo di gigli, emblema della purezza.
È una scultura di ottima fattura, memore comunque delle esperienze degli Usai nell’ambito della statuaria funebre e di molte opere del Sartorio rappresentanti figure allegoriche o veri e propri bimbi reggenti appunto mazzi di gigli. Al lato opposto, la Povertà è rappresentata da una ragazza scarmigliata, vestita con un semplice e logoro abito, scalza e coi piedi evidentemente gonfi per non aver mai indossato calzature. Il bel volto rappresentato mostra uno sguardo rivolto verso il basso, malinconico se non triste, rappresentazione perfetta di una povertà che ha smesso di sperare nel futuro.
Al di sopra del gradino si imposta il ciborio vero e proprio, composto da quattro colonne di marmo rosa venato in grigio con capitelli in bronzo richiamanti l’ordine composito seppur in una stilizzazione che evoca ancora suggestioni tipiche dello stile liberty. La particolarità di questi capitelli risiede nella loro posizione ruotata di 45° rispetto a quella canonica e quindi con le volute poste trasversalmente rispetto al pulvino. Il ricco ornato vegetale che si sviluppa dal collarino alle volute avvolge quattro croci greche con raggiera. Sui capitelli, al di sopra di brevi pulvini cruciformi, si imposta il baldacchino in marmo bianco, formato da quattro arcate segnate da una leggera modanatura con timpano poggiante su archetti pensili e reggenti la figura del Cristo benedicente e due angioletti laterali.
Al di sopra dei pulvini ed entro le nicchie formate dagli archetti pensili sono presenti altre due sculture bronzee raffiguranti allegorie del cristianesimo: al lato sinistro Ecclesia, con la Croce in mano, a simboleggiare la Cristianità intera; al lato destro l’allegoria della Fede, rappresentata da una figura femminile con la mano poggiata sull’àncora, simbolo di fermezza e sicurezza appunto nella fede in Dio.
Il gruppo scultoreo sul timpano è formato da due puttini che sorreggono ghirlande di fiori e nei quali è ancora evidente il retaggio della formazione nella bottega del Sartorio, e sono stati scolpiti molto probabilmente da Antonio, il maggiore dei fratelli Usai e quello più legato allo stile del maestro, mentre Andrea era più libero nel linguaggio figurativo ed è verosimilmente autore degli elementi bronzei e del disegno architettonico. Si impone alla vista, al vertice del timpano, la figura del Cristo Redentore con la mano destra in atteggiamento benedicente, mentre la sinistra sorreggeva una Croce in metallo oggi andata perduta e di cui sono visibili i fori d’alloggio nella scultura del Cristo. Un altro elemento perduto, oltre alla Croce e ai due pannelli più piccoli del gradino d’altare, è la figura dello Spirito Santo in veste di colomba, scolpita in bronzo e un tempo sorreggente la nuvola su cui poggia il piede del Redentore.
L’insieme architettonico/scultoreo, nella sua originalità ed eleganza, è verosimilmente ispirato ad un’opera che certamente i fratelli Usai avevano visto nel Cimitero Monumentale di Bonaria (per il quale avevano realizzato, come vedremo, almeno altre tre opere): il monumento funebre di Pietro Magnini e Ottone De’ Negri, del quale ripresenta la conformazione appunto a ciborio cupolato con due figure stanti ai lati (angeli nel monumento funebre, allegorie di Castità e Povertà nel ciborio) pur in una veste libera dal ricco ornato neogotico che caratterizza l’opera funeraria.
I fratelli Usai avevano già realizzato altre opere nel Cimitero di Bonaria, le uniche firmate sono le due lapidi dedicate ai Coniugi Piredda/Solinas nel Vecchio Orto delle Palme, caratterizzate da un pesante decoro bronzeo applicato sul marmo e da busti con i ritratti dei due coniugi in cui si legge una certa severità scultorea dovuta probabilmente più alla mano di Antonio che a quella di Andrea.
La terza opera, non firmata, è la Cappella Piredda-Rais: non è solo la stessa committenza della famiglia Piredda ad indicarne l’esecuzione da parte degli Usai, ma la conferma è data dal fatto che lo stesso Andrea Usai aveva già realizzato per il Cimitero di Sassari la scultura della personificazione della Sofferenza per la tomba della famiglia Pippia, opera degli anni ‘10, che verrà riproposta nella parte inferiore della Cappella Rais-Piredda, al di sotto di una coppia di angeli e dei tre busti scolpiti invece da Giovanni Battista Troiani.
A Cagliari è pero presente un’altra opera, finora considerata di autore anonimo, che il confronto con l’altare proveniente da Santa Rosalia consente ora di attribuire con certezza – in una ipotesi personale del sottoscritto presentata qui per la prima volta – ai fratelli Usai: l’altare della Cappella del Sacro Cuore nella Collegiata di Sant’Anna.
Eretto nel 1932, come ricorda la targa in marmo alla base, in memoria del soldato cagliaritano Mario Cancedda Deplano, morto durante il primo conflitto mondiale nel 1918 nel campo per prigionieri di guerra di Mauthausen. L’opera venne commissionata dalla Madre del Soldato Cancedda, così come avvenne nella Cappella della Madonna della Vittoria nella Basilica di Bonaria (per un maggiore approfondimento rimando all’articolo sulle madri cagliaritane). L’altare è stato realizzato reimpiegando elementi settecenteschi probabilmente provenienti da un altare della prima chiesa di Sant’Anna e successivamente ricollocato nella nuova. Si ha quindi una mensa d’altare barocca con un gradino intarsiato in marmi policromi al centro del quale è presente un tabernacolo realizzato negli anni ’60 da Gina Baldracchini.
Ai lati della mensa, gli Usai non rinunciano a replicare le due figure stanti del Ciborio di Santa Rosalia, ma in luogo delle due sculture in marmo con le personificazioni della Castità e della Povertà, realizzano due bellissimi angeli in bronzo i quali reggono ciascuno un mazzo di gigli non ancora sbocciati in una posa che richiama la Castitas realizzata per il Ciborio di Santa Rosalia. Al di sopra del gradino, su un basamento alto quanto il tabernacolo, si impostano due colonne in breccia di marmo ambrato su basi in marmo bianco e con capitelli corinzi in bronzo, in un perfetto richiamo alle colonne di marmo grigio/rosa del Ciborio summenzionato. Qui il disegno delle colonne si fa però più austero e classico, come si confà ad un altare commemorativo. Al di sopra delle colonne, una trabeazione con fregio liscio sorregge un timpano spezzato in cui si inserisce un fastigio con il simbolo del Sacro Cuore in bronzo dorato attorniato da un coro di cherubini e da ghirlande di fiori affini a quelle sorrette dagli angioletti del ciborio ora a Quartu. E proprio la coppia di angioletti viene replicata sui due mezzi timpani, stavolta reggenti due cartigli con le scritte “Amore” e “Riparazione”. Il confronto con gli angioletti del Ciborio ora quartese non lascia dubbi circa l’esecuzione da uno stesso modello: la posa e la gestualità con cui sorreggono i cartigli sono le stesse degli angeli che sorreggono le ghirlande, al punto tale da essere perfettamente sovrapponibili.
Non vanno dimenticati inoltre i pannelli bronzei presenti sia nel Ciborio che nell’altare del Sacro Cuore. Qui le scene non sono agiografiche ma rappresentano le sofferenze dei soldati della Prima guerra mondiale. Il pannello a sinistra rappresenta una figura velata sorreggente la lucerna con la fiaccola della vita sospesa sopra una fila di soldati in trincea armati di baionette e mitragliatrici. La solennità della figura velata (non una Santa né un angelo, poiché non compare l’aureola) è stagliata su uno sfondo in cui non è presente alcun paesaggio, solo un campo vuoto segnato da profonde scalfitture che crea un’atmosfera di sospensione e silenzio evocativa dell’animo dei soldati in attesa del proprio destino.
Al lato destro, il pannello bronzeo raffigura invece un angelo che sorregge il corpo di un soldato morente, indicandogli il Cielo a promettergli una futura serenità dopo lo strazio della morte in battaglia. Sullo sfondo si staglia una Croce vuota con il solo drappo a lutto. Anche qui lo sfondo è reso con l’assenza di un paesaggio ma con scalfitture che ancora una volta sottolineano in un’atmosfera di silenzio la drammaticità e il pathos dell’evento rappresentato.
In nessuno degli elementi scultorei dell’altare è presente una firma, ma la messa a confronto tra il Ciborio proveniente da Santa Rosalia e l’altare del Sacro Cuore in Sant’Anna non sembra lasciar dubbi e finalmente consente di dare un nome agli anonimi scultori dell’altare e di quegli straordinari e toccanti pannelli bronzei.
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