Con un sincero ringraziamento a
Valentina Ragazzo, Pierpaolo Vargiu e Sandro De Gioannis
per il loro contributo alla realizzazione di quest’articolo.

«La Villa Ludovisi giace – oggi pur troppo bisogna dire, giaceva – al limite orientale della Città, a Porta Salaria. Toccava le mura di Aureliano che, mirabilmente tappezzate di ellera, ne formavano il confine a levante. Bellissimi viali ombrosi di querce e allori, qua e là framezzati da alti e larghi pini, tranquillità e aria balsamica, facevano della Villa Ludovisi, alla quale non era sempre facile l’avere accesso, uno di quei luoghi di Roma ch’erano nominati i primi quando si discorreva degl’incanti dell’eterna città. […] Fra le cose che, divenendo Roma Capitale d’Italia, venivan prima in mente a quanti conoscevano e amavano Roma, c’era la speranza che quei giardini con le belle fabbriche e con le statue e i quadri in esse contenuti, passassero in dominio pubblico e fossero più facilmente accessibili. Il profetizzare che sotto il nuovo governo la villa dovesse andar distrutta, come oggi accade, e gli allori, le querce e i pini abbattuti, come oggi li vedo abbattere, sarebbe stato allora un’offesa, che neanche il più acerbo nemico della nuova Italia avrebbe osato arrecarle, perché sarebbe sembrata un’enorme follia.

Villa Ludovisi a Roma, in una stampa settecentesca

E come sono oggi abbattuti questi giardini! […] Si fanno a brani le ville per formare lotti di terreno fabbricativo.
[…] Tuttavia anche questo non è ancora, come dice Dante nel quinto dell’Inferno «il modo che offende.» A chi sono stati venduti quei giardini, e come vi si fabbrica?
[…] Il piano del 1882 non fu fatto con previsione della fretta con cui si lavora oggi; si pensò che le case sarebbero fabbricate in una forma conveniente e a poco a poco, secondo che la crescente popolazione via via lo richiedesse. […] Ciò che specialmente fa paura nel moderno mutamento di sistema è l’improvviso dirizzone verso il mostruoso. È proprio dei nostri nuovi tempi che, quando ci sia realmente da guadagnare milioni, in un batter d’occhio le condizioni mutino e si passi ogni misura, senza che – e anche questo è un segno del tempo – nessuno ci veda niente di straordinario o che apparisca anche possibile il porvi riparo. Da poco tempo solamente è venuta la furia, la smania di fabbricare a rotta di collo. Alcune società di capitalisti hanno acquistato in blocco i terreni e intrapreso a coprirli di fabbriche. […] case smisuratamente alte, fatte in modo da trarre eccessivo profitto dal suolo, addossate le une alle altre, spesso già piene di inquilini nei piani più alti mentre gl’inferiori non sono ancora finiti. La più parte senza nessuna architettura; là dove ne apparisce un accenno, mostrano tutti quei sintomi che si osservano da per ogni dove in costruzioni di simil genere.»
Herman Grimm (“La Distruzione di Roma”, alla fine del Gennaio 1886)

 

Hermann Grimm

Una descrizione, quella fatta da Herman Grimm (insigne storico dell’arte e figlio di Wilhelm Grimm passato alla storia come uno dei Fratelli Grimm, celebri autori della raccolta di fiabe popolari), che si può ben applicare anche a Cagliari. E non solo ad una Cagliari contemporanea della Roma di Grimm, ma ad una Cagliari che ha proseguito la sua opera di distruzione anche in anni più recenti, concludendo – per ora – la sua devastazione attorno al 2005.
Il legame di Villa Ludovisi con Cagliari, volendo estendere la narrazione, non è dovuto alle sole affinità tra i destini architettonici degli edifici scomparsi, ma è anche legato alla Storia vera e propria in quanto Ludovico Ludovisi, il Cardinale che fece costruire la villa, era il fratello di Niccolò I Ludovisi (committente del Palazzo Ludovisi oggi noto più comunemente come Montecitorio) che diverrà Re di Sardegna dal 1662 al 1664, anno della sua morte avvenuta proprio a Cagliari.

Ma parliamo ora delle nostre ville scomparse.
Cronologicamente, la prima villa ad essere scomparsa tra quelle di cui si parlerà nell’articolo odierno, corrisponde anche a una delle più gravi perdite architettoniche e storiche della Città. Si tratta della Villa Davies.
La villa, costruita nella prima metà dell’Ottocento dal capostipite della famiglia Davies, è facilmente identificabile in alcune foto d’epoca, ma qui ne prenderemo in esame due: una è la famosa veduta dal dirigibile Ausonia del 1921, e l’altra è una veduta che immortala la villa dall’area su cui sorgerà l’attuale Palazzo Faggioli. Villa Davies si trovava in un’area compresa tra la via Mameli e l’attuale sezione di via Malta a cui si accede da un portico moderno. Nella veduta dal Dirigibile Ausonia è possibile individuare la villa e stabilire le ampie dimensioni del piccolo parco urbano in cui era inserita, difatti il suo terreno, col relativo giardino, si estendeva fino all’attuale via Caprera e confinava col Convento del Carmine.
Come detto, la villa era proprietà della famiglia Davies che la fece costruire nella prima metà dell’Ottocento e passò alla storia cittadina (e non solo) per i discendenti che vi abitarono in seguito, ovvero William e Charles, ingegneri delle Ferrovie Reali, e la loro sorella Sarah, moglie di Benjamin Piercy, l’ingegnere cui si deve la progettazione del primo sistema ferroviario della Sardegna con la realizzazione delle prime Stazioni e dei villaggi che sorsero nelle loro vicinanze. Di sua proprietà era anche la splendida Villa Piercy nell’agro di Bolotana, un piccolo gioiellino dal fascino britannico incastonato in un bosco della Sardegna. Dei due fratelli Davies, Charles passò alla storia oltre che per le sue opere ingegneristiche anche per un modo di dire ancora in uso nel basso Sulcis e in particolare in quel di Siliqua, ovvero il detto “Mann’e tontu che su mull’e Devis” (grande e tonto come il mulo di Davies) per via della stazza dei muli impiegati per i lavori nella Tanca di Berlinghieri, appunto a Siliqua.

Villa Davies, al centro della veduta dal Dirigibile Ausonia

La Villa Davies fu demolita immediatamente dopo la II Guerra Mondiale per realizzare al suo posto il proseguimento di via Malta con l’intento di edificarvi dei palazzi post-razionalisti anche se in seguito vi vennero edificati dei palazzoni tanto anonimi quanto fuori contesto. La villa si presentava con un aspetto massiccio e monumentale ma ingentilito dall’eleganza del partito architettonico e decorativo. Il prospetto principale e quello sul parco si innalzavano su tre livelli con un attico e un’altana soprastanti e vi si aprivano sette affacci, mentre i prospetti laterali – di dimensioni appena più contenute – ne presentavano solo cinque. Il pianterreno era interamente rivestito in fasce bugnate in pietra; al primo piano invece le aperture centinate erano separate tra loro da lesene bugnate ed era presene un solo balcone centrale con balaustra in pietra. Il secondo piano invece presentava aperture rettangolari, delle quali le cinque centrali erano provviste di balconcini in ferro battuto. Al di sopra delle aperture, in luogo della centinatura erano presenti delle lunette con inserite delle ghirlande a bassorilievo. A separare le aperture del secondo piano provvedevano delle lesene lisce. Oltre l’ampio cornicione si impostava la copertura a falde al centro della quale svettava l’altana con l’attico sovrastante.

Villa Davies vista dall’area del Palazzo Faggioli

Il parco della villa presentava una doppia recinzione: la prima recinzione, quella più esterna, separava la villa dalle vie Caprera e Maddalena (nella quale ancora non era stato aperto lo sbocco di via Malta e dove erano ancora presenti le pertinenze delle antiche osterie di Sant’Anna e dello Schiavo). All’interno di questa prima recinzione era presente il parco circostante la villa. Una seconda recinzione più interna separava il giardino vero e proprio dal resto del parco ed era caratterizzata da due singolari torrette angolari ciascuna con un piano alto presentante tre aperture su ogni lato e coperte da un tetto piramidale. L’aspetto di queste torrette angolari potrebbe essere stato di ispirazione per le torri cilindriche agli angoli della già citata villa Piercy di Bolotana. Tutto ciò è ben osservabile in una veduta d’epoca che consente di apprezzare l’armonia della villa e del parco in cui era inserita e di rimpiangere la bellezza di una struttura perduta per far luogo ad anonimi fabbricati moderni.

Due vedute attuali dell’area su cui sorgeva Villa Davies.

Il secondo esempio di villa distrutta è sia il più recente, poiché avvenuto nei primi anni ‘2000, sia il più eclatante per l’importanza storico-architettonica della villa, tale da dare un nome all’intera area che le sorgeva intorno.
Si tratta della Villa Halen nata, come tante altre tipiche case coloniche campidanesi, sul finire del ‘700 e fu da subito una proprietà nobiliare, in particolare baronale, cosicché la zona in cui sorse – come detto poc’anzi – fu nota, e lo è ancora, col nome di “Su Baroni”. La villa sorgeva infatti alle spalle del Palazzo di Giustizia, nell’attuale via Tuveri. Nel 1935 la baronessa Enrichetta Halen di Villahermosa, discendente dei proprietari originari della villa, la fece restaurare adattandola ad uno stile di vita contemporaneo ma rispettandone l’originale struttura colonico-campidanese e mantenendo inalterata la lolla e il bellissimo giardino.

Villa Halen, il giardino e il porticato chiuso

Vedute interne della villa

Negli anni ’70 la villa subì nuovi restauri che però continuarono a rispettare il suo aspetto nativo e gli importanti elementi decorativi presenti al suo interno. La bellezza della villa fece sì che divenisse una delle protagoniste del numero di Luglio 1998 del mensile “CasaViva”, ed è appunto grazie alle foto della rivista che si possono visitare gli ambienti della dimora patrizia negli ultimi istanti del suo splendore dato che, pochi anni dopo, in seguito ad un passaggio di proprietà fu demolita in favore della costruzione di un anonimo condominio nella via Tuveri, la cui unica nota positiva è l’essere congruamente inserito in un contesto di brutte architetture anni ’80 che poco alla volta hanno invaso la parte centrale della via Tuveri, mentre architetture già più elevate nel gusto avevano soppiantato negli anni precedenti le misere baracche di “Su Baroni”, immortalate in un celebre articolo de “L’Unità” del 1951 come esempio di degrado e povertà.
Della Villa Halen oggi rimane solo una piccola e pericolante struttura di servizio riferibile alla casa del custode e prospettante sul Vico III Tuveri, un malsano vicoletto ancora sterrato e pressoché privo di servizi e sicurezza.

Altre vedute degli interni di Villa Halen

Come appare oggi l’area su cui sorgeva Villa Halen…

Tra i due estremi temporali costituiti da Villa Davies e Villa Halen, si situano altri importanti e dolorosi esempi di demolizione nonché gravi perdite del patrimonio storico-architettonico cittadino.
Uno dei casi più emblematici è la scomparsa della Tenuta Ambu, nota col nome di Villa Sant’Agostino, al limitare dell’abitato di Pirri nell’attuale via Montecassino. Suona quasi ironico il fatto che in una via che commemora il recupero del paese e della celebre Abbazia Benedettina dopo la quasi totale distruzione bellica, sia avvenuto uno dei peggiori casi di abbandono e demolizione della città di Cagliari.
La Villa Sant’Agostino, come molte altre proprietà padronali, affondava le sue origini storiche nel XVIII secolo e le sue vicende seguirono da vicino quelle della confinante Villa Pollini, alla quale era collegata da un lungo viale alberato che dal cancello destro del giardino della Villa Pollini si prolungava (a testimoniare la comunanza delle vicende storico-produttive e gli ottimi rapporti tra le due tenute) tra campi e vigne fino a un’esedra nella quale confluivano più viali e posta sul retro della Villa Sant’Agostino. L’unica foto in cui si può vedere per intero l’estensione della Tenuta Ambu/Villa Sant’Agostino è la veduta di Pirri dal dirigibile Ausonia, del 1921, oltre che alle ortofoto che consentono di stabilire la forma e la struttura della villa.

Veduta di Pirri dal Dirigibile Ausonia (1921): in verde Villa Sant’Agostino, in celeste Villa Pollini

Il cancello di Villa Sant’Agostino

Si trattava di una tradizionale casa campidanese di origine settecentesca: dal semplice portale con cancello in ferro battuto (del quale esiste una foto gentilmente concessa per l’articolo dalla “Collezione Privata Pierpaolo Vargiu”, che ringrazio) si accedeva ad un primo, piccolo cortile su cui si affacciavano alcuni ambienti di servizio. Un portico in asse con il portale conduceva poi alla corte vera e propria dotata di lolla e di forma perfettamente quadrata. La casa padronale sorgeva – come da tradizione – sul braccio orientale del grande cortile in modo da avere il prospetto orientato verso occidente e godere così della luce solare dal mattino inoltrato fino all’ora del tramonto.
Villa Pollini e Villa Sant’Agostino conobbero un periodo di declino e di abbandono (totale in villa Pollini, parziale nella tenuta Ambu), tanto che persino la villa Pollini minacciava di crollare finché non fu recuperata negli anni ’90. Già negli anni ’60 la costruzione dell’Asse Mediano di scorrimento, tangente il muro di cinta di villa Pollini, provvide a dividere le tue proprietà eliminando la parte iniziale dello splendido viale alberato. La costruzione dell’ex scuola media “Giacomo Leopardi” e dell’”Istituto Tecnico Michele Giua” finirono di eliminare le tracce residue del viale, mentre per le due ville si preparava un inesorabile declino. Ma se il destino si rivelò salvifico per la Villa Pollini, si mostrò altresì tragico per la villa Sant’Agostino che – al pari della Vinalcol (si veda al riguardo l’articolo sulle Ciminiere Cagliaritane) – verrà demolita nella quasi totale indifferenza generale negli anni ’80 per consentire la sempre maggiore cementificazione delle aree di contatto tra l’abitato di Cagliari e quello di Pirri. Tuttavia in seguito alla demolizione della tenuta Ambu, sui suoi resti non sorse nulla e attualmente lo spazio in cui sorgeva e i campi intorno sono coperti da un’enorme e potenzialmente incendiabile distesa di erbacce su cui si trovano i pericolosi resti di pozzi e cisterne funzionali alle attività della casa colonica.

L’area su cui sorgeva la Villa Sant’Agostino e uno dei suoi resti

La Fattoria di Bobboi

Dal lato opposto della via Montecassino, ad una cinquantina di metri dal muro di cinta della villa Sant’Agostino, era possibile raggiungere un’altra casa padronale scomparsa, la cosiddetta “Fattoria di Bobboi”. Anch’essa seguiva l’impianto delle case campidanesi, con la struttura padronale affacciata sulla Lolla e circondata dagli ambienti di servizio. Della storia dell’edificio si conosce poco e non è facile rintracciare informazioni al riguardo, almeno precedenti la sua demolizione. Una serie di vedute fotografiche facenti parte della succitata “Collezione Privata Vargiu”, mostrano una struttura di impianto 700-800esco sicuramente rielaborata agli inizi del ‘900 e anche in seguito. La torretta della villa infatti presentava sul lato posteriore, in prossimità della scala esterna in ferro, un motivo decorativo geometrico già approssimabile agli anni ’20 del ‘900, mentre i brevi scorci di facciata che si riescono ad intravvedere fanno intuire un decorativismo affine al liberty che trasformò tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo molti prospetti colonici pirresi. Le vicende della Fattoria “di Bobboi” si conclusero con l’erezione al suo posto dell’attuale chiesa di San Gregorio Magno, pertanto la sua fine anticipò di circa quindici anni il tragico destino che colpirà nel 1983 anche la Villa Sant’Agostino.

Una foto d’epoca della Fattoria di Bobboi e la stessa area come appare oggi

Tra le case padronali del centro storico, sicuramente la più interessante dal punto di vista architettonico fu quella che, nei suoi ultimi anni di esistenza, era nota come “Casa Fercia”. La villa, un tempo isolata nel mezzo del suo ampio terreno ancora in gran parte inedificato, sorgeva tra le attuali vie Tristani e San Saturnino. La più celebre tra le foto d’epoca che la ritraggono è la veduta di Villanova dal dirigibile Ausonia, del 1921, ma la villa è ben identificabile anche in altre foto d’epoca. Nella veduta dal Dirigibile Ausonia è particolarmente apprezzabile la singolare forma a mezzaluna dell’edificio come risultato della demolizione di due ali laterali retrostanti dell’edificio, delle quali una era già stata demolita e l’altra era ancora intatta. In aiuto alla sua descrizione visiva ci vengono gentilmente concesse altre foto dalla Collezione privata Vargiu, che la ritraggono poco prima della sua demolizione avvenuta a fine anni ’60. Si accedeva alla villa da diversi portali con cancelli aperti lungo il muro di recinzione in via San Saturnino e in via Tristani. Attualmente solo uno di essi è ancora intatto col suo cancello originale, mentre del portale principale su via San Saturnino – con l’architrave decorato da un motivo barocco a conchiglia, non rimane altro che il varco, peraltro pesantemente rimaneggiato con mattoni foratini e occluso da lamiere.

A sinistra, cerchiata in verde, Casa Fercia nella veduta dal Dirigibile Ausonia (1921), a destra in una veduta dal Viale Ubaldo Badas degli anni ’50

Due immagini della Villa Fercia poco prima della demolizione. Dalla Collezione Privata Pierpaolo Vargiu

La villa, come già detto, presentava una particolare forma a mezzaluna sulla quale si aprivano cinque finestre e un balcone centrale, la cui ringhiera in ferro battuto palesava l’origine settecentesca dell’edificio (in un prossimo articolo verrà precisata maggiormente questa particolarità dei balconi in ferro settecenteschi). La villa si trovava dunque al margine settentrionale del quartiere Villanova, un’area in cui a breve distanza è possibile osservare ancora altri importanti esempi di ville padronali come la settecentesca Villa Vivaldi, affiancata dalla coeva e incompiuta Villa Calvi (le cui scuderie, col loro maestoso portale, affacciano ancora in via San Rocco) e la più recente Villa Cao, che inglobò anche queste ultime due ville in un’area verde confinante con l’allora modernissimo Mobilificio.
All’interno del vasto terreno della ex Casa Fercia sorgevano inoltre alcuni edifici minori destinati presumibilmente a spazi di rimessa e ad abitazioni per i lavoratori. Uno di questi piccoli edifici sopravvisse fino ad anni recenti, quando venne abbattuto per motivi di sicurezza. Tuttora il terreno appare incolto, pericolosamente invaso da erbacce secche e cinto da un muro di recinzione prossimo al crollo in più punti.

Due immagini del vasto recinto in cui sorgeva la Casa Fercia e l’unico cancello superstite

Dal punto di vista artistico-architettonico, la perdita più grave nell’ambito delle ville cagliaritane è rappresentata dalla scomparsa della Villa Scano, ubicata nel tratto centrale del Viale Trento, un’area interessata – tra la fine dell’ottocento e i primi decenni del novecento – dall’edificazione di numerose ville e villini che ancora oggi caratterizzano in gran parte il viale e le sue adiacenze come il retrostante quartiere di Tuvixeddu/Tuvumannu.
Villa Scano venne costruita come propria residenza dal celebre architetto e storico Dionigi Scano, e il suo progetto risale agli anni ’10. La villa fu conclusa nel 1917 e completata nel 1926 dalla splendida recinzione e dovuta al progetto di Flavio Scano, l’ingegnere figlio di Dionigi.
Stupenda espressione di un gusto architettonico ispirato alla Secessione Viennese, la villa era formata dall’incastro di tre corpi di fabbrica sporgenti l’uno sull’altro in una felice composizione di volumi differenti. Il corpo centrale, quello più avanzato fra i tre, era diviso in tre specchi da lesene bugnate tra le quali si aprivano le finestre riccamente ornate al pianterreno e più sobrie al piano nobile, mentre nello specchio centrale si apriva il tripartito portone d’ingresso sormontato da un ricco fastigio che occludeva la parte superiore lunettata, mentre al di sopra era presente un’ampia finestra anch’essa tripartita e ad arco ribassato che riprendeva il modello romano della finestra termale (molto in voga nella Belle Époque e nell’ambito dell’eclettismo architettonico), la cui porzione centrale proseguiva oltre l’arco ed era sormontata da una cimasa su capitelli analoga a quelle delle finestre laterali del pianterreno.
Al lato sinistro del prospetto, in corrispondenza del secondo corpo sporgente, svettava uno svelto torrino con un’altana nella quale erano aperte su ogni lato finestre tripartite sul modello di quella dello specchio centrale del prospetto.

La Villa Scano in due foto d’epoca

La recinzione del 1926 riprende in scala maggiore i parapetti della torretta e della grande terrazza centrale e si caratterizza tuttora per l’elegante uso di archi capovolti e culminanti in volute con decorazioni vegetali, posti tra pilastri bugnati conclusi da capitelli con una ricca decorazione vegetale sovrastante dei semplici elementi geometrici. Tra gli archi sono inserite le inferriate di gusto splendidamente liberty con una preziosa eleganza di elementi geometrici e vegetali. La scomparsa della villa risale al 1973 quando venne abbattuta per edificarvi al suo posto la villa Trois, un edificio moderno, meno appariscente e meno sviluppato in altezza, pertanto anche meno visibile dal viale Trento.

La splendida recinzione della Villa Scano, fortunatamente salvatasi dalla demolizione

A poca distanza dalla Villa Scano, a metà della ripida salita di via Gorizia, esattamente di fronte all’ancora esistente Villa Costa, sorgeva l’elegante Villa De Gioannis-Mameli, risalente agli anni ’20 e sede – nei suoi ultimi anni di esistenza – della prima sede della Clinica Privata Santa Rita.
La Villa è stata immortalata in una celebre foto di Alfonso Efisio Thermes dove – sebbene non compaia in primo piano ma al centro dell’immagine – è ben possibile osservarne le peculiarità architettoniche ma anche in un fotogramma all’inizio del celebre film “La Calda Vita”, diretto da Florestano Vancini e girato in Sardegna nel 1963 (e già citato sia nell’articolo sulle Ciminiere sia nell’articolo sui Lampioni).
Il prospetto principale si affacciava sulla via Gorizia ma la facciata più interessante architettonicamente prospettava sul tratto mediano della serpeggiante via Vittorio Veneto ed era caratterizzato da un fronte centrale nel cui primo piano si apriva un’ampia finestra termale sopra la quale erano presenti tre medaglioni decorativi. Le due ali laterali del prospetto presentavano invece aperture più modeste nelle dimensioni ma molto ricche a livello decorativo per la presenza di timpani triangolari al centro dei quali si trovavano altri elementi decorativi a bassorilievo. Sul prospetto di via Gorizia, al lato sinistro, una terrazza sostenuta da colonne formava un grazioso patio cui si accedeva dal pianterreno e che immetteva nel giardino retrostante. Pur nella dimensione contenuta dell’edificio, l’aspetto generale era di notevole monumentalità e la sua scomparsa ha alterato l’equilibrio architettonico della via Gorizia in un tratto in cui i villini di varie fogge formavano un insieme armonico e piacevole. La demolizione avvenne agli inizi degli anni ’70 e l’edificio che l’ha sostituita ha comunque il garbo di una bella struttura moderna che, tutto sommato, non crea un contrasto troppo impattante col contesto di ville d’epoca, pur non presentando l’antico fascino dell’originale.

La Villa De Gioannis-Mameli, a sx in una foto di A.E. Thermes degli anni ’30, al centro nel film “La Calda Vita” (1963); a dx l’edificio che l’ha sostituita

Una delle principali arterie cittadine ad aver subito una lunghissima serie di demolizioni e ricostruzioni – quasi esclusivamente nel secondo dopoguerra – al punto da apparire spesso irriconoscibile, se confrontata con le immagini d’epoca, è la centralissima via Sonnino. Così come nelle sue adiacenze, le profonde trasformazioni urbane hanno sconvolto quello che era l’aspetto originario, ma delle sue adiacenze si parlerà più avanti.
In particolare il tratto di via Sonnino compreso tra Piazza Gramsci/via Iglesias e la via Alghero è l’area che mostra le maggiori (e peggiori) trasformazioni. Sono ben tre, infatti, i villini scomparsi e sostituiti da palazzoni anonimi tra il dopoguerra e gli anni ’70.
Uno degli edifici più pregevoli e più rimpianti, era sicuramente il Villino Marongiu, circondato da un ampio giardino compreso tra l’ancora esistente palazzina Gaudina e l’attuale via Abba. Il Villino Marongiu aveva caratteristiche formali e volumetriche facilmente associabili a quelle della scomparsa Villa Scano, essendo formato da un corpo di fabbrica con volumi sporgenti su cui svettava una caratteristica torretta con altana. I dettagli decorativi però sono l’espressione di un già avvenuto mutamento dalle forme ancora liberty della Villa Scano (1917) ai canoni stilistici della metà degli anni ’20, epoca a cui risaliva il villino Marongiu. L’aspetto della torretta, infatti, pur nella sua eleganza mostrava caratteristiche tali da poterlo paragonare al coevo edificio originario della S.E.S. in Piazza Deffenu e ad un altro villino scomparso – di cui si farà cenno più avanti – nel viale Poetto. Caratterizzava la torretta l’ampiezza delle aperture e l’esile spessore dei sostegni, elementi che si ripresentavano anche nella loggetta a pianta rettangolare, chiusa da vetrate, posta al pianterreno e su cui era impostata una sovrastante terrazzina. Sobrie modanature piatte rimarcavano le aperture, mentre un fregio formato da mensoline alternate a piccole aperture sorreggeva il cornicione su cui poi svettavano le ampie falde del tetto. Un grazioso comignolo in terracotta si ergeva poi dietro l’altana richiamandone quasi le forme.
Il villino, già soffocato dagli edifici sorti ai suoi lati nel secondo dopoguerra, scomparve definitivamente con la costruzione di un nuovo stabile accanto alla palazzina Gaudina e venne demolito negli anni ’60 per ricavarvi al suo posto un ampio cortile con parcheggio seminterrato il cui accesso si trova nell’attuale via Einaudi.

A sinistra, il villino Marongiu; a destra il moderno edificio che lo ha sostituito.

Poco più avanti, sempre nella via Sonnino, sorgeva un altro edificio costruito con le caratteristiche di una villa destinata alle abitazioni di più nuclei familiari. La sua scomparsa precede di circa un decennio quella del villino Marongiu, ma in questo caso non esistono fotografie che ritraggano l’edificio originario. È però facile intuirne le forme architettoniche poiché di fianco al palazzo che l’ha sostituito è ancora presente il villino gemello. I due villini occupavano infatti l’area centrale dell’isolato attualmente compreso tra le vie Sonnino, Abba, Alghero ed Einaudi. Le loro vicende costruttive cominciarono a fine anni ’20.
Già nel 1925 infatti era stata prevista la costruzione di un signorile quanto massiccio edificio diviso in due blocchi identici separati da uno spazio carrabile affiancato da torrette con altane. La mole dell’edificio a due corpi sarebbe stata ingentilita dalle sporgenze angolari e da fregi e stemmi neobarocchi tipici dell’architettura della prima fase del Ventennio. L’edificio non vide mai luce per via della lungaggine burocratica necessaria all’apertura della via Abba, che risale agli anni ’60. Al posto dell’edificio previsto negli anni ’20 sorsero l’elegante palazzo all’angolo tra via Sonnino e via Alghero, un modesto villino anch’esso scomparso proprio dove ora si trova lo sbocco della via Abba e i due villini gemelli.

I due villini gemelli in una veduta aerea del 1942 e in una attuale: in rosso quello scomparso, in verde quello ancora esistente; in giallo lo scomparso Villino Marongiu

Questi ultimi, sulla base dell’elegante villino superstite, erano caratterizzati da un fronte principale più corto rispetto a quelli laterali e diviso in tre specchi da lesene corinzie di ordine gigante. Tra le lesene, nei due piani superiori, si trovavano due balconi con parapetti caratterizzati da fogge diverse (traforato quello del primo piano e a balaustrini quello del secondo). Al pianterreno – rialzato per ricavare un piano seminterrato – si trova l’ingresso accessibile da una doppia rampa di scale. Le finestre e i balconi sono riquadrati da sobrie cornici piatte. Sovrasta l’edificio, sul fronte principale, una terrazza lunga quanto il prospetto ma poco profonda, alla quale si accede dalla torretta del corpo scala sulla quale è posto un ulteriore terrazzino.

Il villino superstite in via Sonnino e la palazzata costruita al posto del suo gemello

Via San Benedetto (anni ’40). In rosso, Villa Usai.

Un’altra importante arteria cittadina che ha subito nel tempo molte e pesanti modifiche è la via San Benedetto, teatro nel ’96 di un’ennesima scomparsa di un edificio storico – la villa Usai, preceduta nei decenni precedenti da quella di altri villini attigui ma di modestissimo valore architettonico. La villa Usai risaliva agli inizi degli anni ’30 ed era un edificio dalle forme piuttosto massicce, cui nemmeno i pochi elementi decorativi contribuivano ad alleggerirne l’aspetto; non era un villino particolarmente pregevole dal punto di vista architettonico ma comunque singolare nel suo aspetto e nei pochi dettagli decorativi che lo contraddistinguevano. Sul fronte di via San Benedetto si caratterizzava per la torretta con triplici aperture centinate su ogni lato, mentre sul fronte opposto, osservabile dalla via Genneruxi, la forma della villa si rastremava dal massiccio corpo centrale in un più movimentato volume semi-esagonale in forma di pseudo-bovindo. Le decorazioni erano scarse e limitate alle singolari cornici bugnate in pietra viva che attorniavano le finestre (bifore nel corpo della villa e, come detto, trifore nella torretta) e ad una serie di obelischi e sfere che sormontavano il parapetto della terrazza. Al pari dell’edificio, anche gli obelischi e le sfere avevano un aspetto piuttosto pesante e non contribuivano certo ad ingentilire l’estetica della villa.

La demollizione di Villa Usai (foto gentilmente concesse da Sandro De Gioannis)

Il complesso sorto al posto di Villa Usai

Nonostante l’impatto visivo non proprio felice, la villa Usai oggi avrebbe costituito un unicum di importante valore storico nella parte terminale della via San Benedetto, ma nella metà degli anni ’90, in seguito ad un passaggio di proprietà, venne demolita per far posto a due eleganti e lussuosi edifici moderni, che avrebbero però potuto sorgere anche in qualunque altra area cittadina senza mai sfigurare. Per ironia e contrasto con l’ammodernamento della via San Benedetto, sul lato opposto di via Genneruxi rispetto alla villa Usai, è sorta in anni recenti una nuova villa che anziché presentare un aspetto moderno e più confacente alla nostra epoca, ricalca in modo quasi caricaturale le caratteristiche delle ville classiche, con l’uso di un linguaggio storicista spesso incoerente nei dettagli. È singolare che, nel rendere moderno un quartiere, si sia demolita una villa storica per poi vedere sorgere esattamente di fronte una villa che vuole richiamare – non riuscendoci – un’architettura d’epoca…

Nel primo tratto del viale Poetto, all’incrocio con la via Tramontana (in un’area inizialmente al di fuori dell’abitato e che ha conosciuto una sua urbanizzazione a partire dagli inizi del ‘900 con la costruzione della Città del Sale e con la sempre maggiore estensione del nucleo urbano di Cagliari verso sud-est per collegare la Città con la spiaggia del Poetto) sorgeva un’altra villa oggi scomparsa. Si trattava della Villa Vaghi, bellissimo ed elegante esempio di architettura razionalista risalente alla metà degli anni ’30 ed incastonata in un piccolo ma suggestivo parco privato. Nata come villa residenziale della famiglia Vaghi, proprietaria di una celebre salumeria del quartiere Marina, la villa divenne nel secondo dopoguerra la sede di un discusso circolo militare della NATO per poi passare ulteriormente di proprietà e venire demolita negli anni ’70 per ricavare al suo posto un nuovo complesso condominiale che ha fortunatamente mantenuto quasi inalterato il parco.

La Villa Vaghi in due foto d’epoca (si ringrazia Valepassarola.it per la concessione)

La villa era sobria ed elegante, composta da un armonico insieme di volumi quadrati e spazi rotondi come il corpo scala retrostante di forma semicilindrica (affine a quello dell’attuale palazzina RAI di viale Bonaria) e il corpo stondato formato da un bovindo al pianterreno e dalla terrazza del primo piano. La copertura era formata da un unico lastrico solare sul quale era installata una splendida pergola bianca che – insieme alle sottili lastre marmoree che riquadravano le aperture e agli infissi del bovindo – contrastava in modo impeccabile con la tinta bruna della facciata. La recinzione, unico elemento della villa salvato dalla demolizione, è un bell’esempio di stile Art Decò caratterizzato da un’inferriata con un semplice motivo geometrico ripetuto sui lati di Viale Poetto e via Tramontana e dallo splendido cancello in cui sono ancora più evidenti le caratteristiche del Decò, in particolare nelle due figure di pavoni realizzate ciascuna su ogni anta del cancello e poste al di sopra di vasi a due anse da cui emergono rose stilizzate, il tutto realizzato in ferro battuto. Puramente razionalista è invece la targa in calcare col cognome Vaghi, posta sul pilastro destro del cancello.

Il complesso sorto in luogo della Villa Vaghi e il dettaglio del cancello Art-Decò

Oltre la villa Vaghi, nel tratto in cui il viale Poetto si trasforma nell’attuale splendido lungomare impreziosito da eleganti villini e di recente recuperato e restituito alla Città. Sono diversi gli esempi di villini d’epoca scomparsi in quest’area per far posto ad edifici più moderni. Il caso più emblematico è però quello del villino d’epoca che sorgeva poco oltre la celebre (e fortunatamente ancora esistente) “Villa Elisabetta”, e già richiamato a proposito del Villino Marongiu col quale presentava caratteristiche in comune.
Se infatti il villino Marongiu riprendeva, semplificandolo, il linguaggio formale della Villa Scano, questo villino di fine anni ’20 riprendeva quello del villino Marongiu, di poco precedente, per semplificarlo ulteriormente secondo canoni ormai volti al razionalismo. L’edificio presentava infatti caratteristiche simili a quelle del villino di via Sonnino, come la torretta con l’altana e le aperture lunghe e strette riproposte anche nell’ampia loggia finestrata sovrastante il porticato del fronte principale (aperture lunghe e strette simili, si ripresentavano nella loggetta del villino Marongiu). Di impostazione più classica ma sempre affini al razionalismo erano le modanature delle aperture delle due ali laterali, caratterizzate da sottili cimase su piatte fasce che inquadravano le finestre. Un ulteriore richiamo ad un precedente canone classico era dato dalla copertura a falde dell’altana, sormontata da un piccolo pinnacolo, elemento ancora legato ad un gusto liberty al quale si ispiravano anche le inferriate della recinzione. La scomparsa di questo villino avvenne nei primi anni ’70 quando fu sostituito da un edificio moderno al quale un recente restauro ha donato un aspetto ancora più minimalista e contemporaneo grazie all’uso di un candido intonaco bianco nei prospetti associato alle semplici ringhiere in acciaio.

Il Villino di Viale Poetto in due foto d’epoca e una veduta attuale con il nuovo edificio

Il percorso tra le ville scomparse ritorna ora – come già preannunciato – nell’area intorno alla via Sonnino. Nella Via Alghero è presente un caso diverso di villa scomparsa, ovvero una villa che non è stata demolita ma trasformata in una palazzina a schiera con l’occupazione dei suoi giardini laterali per l’edificazione di due condomini.

Il villino di via Alghero (anni ’20)

Il villino in questione si trova attualmente nella sola via Alghero, mentre in origine il suo giardino principale si spingeva fino all’angolo con la via Sonnino dove si trovava un portale d’accesso. L’edificio oggi presenta ancora tre dei suoi quattro prospetti originari ma con profonde modifiche a quello che era il suo prospetto più articolato e che poteva essere considerato come il principale: si accedeva infatti al villino, oltre che dall’ampio portone di via Alghero, anche attraverso il giardino prospicente la via Sonnino, oltre il cui sentiero centrale in asse col cancello, una doppia rampa di scale immetteva nell’ingresso secondario (di dimensioni pari a quello delle altre aperture presenti nel prospetto e molto più piccolo rispetto a quello di via Alghero). Qui una coppia di colonne in ferro si raccordava alle mensole con volute che sostenevano il balcone del primo piano, formando così un aereo e leggiadro spazio porticato. Il balcone presentava le stesse caratteristiche decorative di quello presente nel prospetto di via Alghero. Con la costruzione del palazzo a monte, prospettante su via Alghero e Via Garibaldi, scomparve il giardino posto sul retro e venne completamente occluso il prospetto che vi si affacciava. A fine anni ’60 venne innalzato anche un altro edificio, all’angolo con via Sonnino, che occupò il giardino principale, stavolta mantenendo una sottile distanza dal villino e formando quindi uno stretto vicolo su cui oggi si affaccia il mortificato prospetto sul lato di via Sonnino privato della sua doppia rampa di scale, delle colonnine in ferro e di tutti i balconi e le decorazioni di quello centrale, lasciando comunque intatte le aperture ridotte ormai a semplici finestre riquadrate da piatte cornici.

Il villino di Via Alghero ora trasformato in una palazzina a schiera soffocata da alti condomini moderni

Non distante dalla via Sonnino, sul lato orientale della Piazza San Cosimo, sorgeva un altro edificio che pur non essendo una villa vera e propria ne riprendeva la tipologia edilizia. Era la cosiddetta “Casa del Clero”, un edificio sorto negli anni ’20 e dunque contemporaneamente al Palazzo Doglio e agli altri edifici che formano oggi la piazza, costruito in uno stile che richiamava le architetture del rinascimento toscano soprattutto nella fascia bugnata del pianterreno e nelle cornici, anch’esse bugnate, che circondavano le aperture centinate del primo piano. Al centro di ognuno dei quattro prospetti era inoltre presente un balcone con apertura bifora e parapetto in balaustrini cementizi. Chiudeva l’edificio un ampio tetto a falde assai aggettante e preannunciato solo da un sottile cornicione. Negli anni ’50 la Casa del Clero venne demolita per far spazio ad un ampio ed elegante fabbricato moderno che chiude tutto il prospetto orientale della Piazza San Cosimo ed è dotato di un passaggio coperto privato originariamente previsto con funzione di galleria per negozi e ora sede di studi professionali.

La Casa del Clero negli anni ’30 e lo stesso scorcio oggi.

La fatiscente Villa Mulas a Tuvixeddu…

Il percorso tra le ville e i villini scomparsi a Cagliari si conclude qui, ma l’articolo rischia di poter proseguire e vedere inserita nella sua narrazione anche la villa Mulas di Tuvixeddu ormai prossima ad un crollo totale visto l’evidente e pluridecennale stato di abbandono, ma non del tutto priva di speranze di salvezza, come avvenuto per la villa Ghiani-Mameli (nota come Villa Clara) in cima al colle di Monte Claro ora recuperata e suggestiva sede della Biblioteca Provinciale Emilio Lussu, o come avvenuto per la già citata villa Pollini, salvata in extremis da un crollo ormai quasi inevitabile. Pertanto, per ora l’articolo vede qui la sua fine, nella speranza che altre ville non entrino nel novero del patrimonio architettonico ormai perduto in città.




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