Cagliari, come tutte le città che possono vantare una storia plurimillenaria, ha da sempre dovuto confrontarsi con quella che è una costante nel corso della storia umana e urbana: il rapporto con la morte e la sepoltura.
Nel corso della sua lunghissima (e travagliata) storia, l’abitato cittadino si è di volta in volta spostato nel territorio e una nuova città dei morti sorgeva sempre accanto alla trasferita città dei vivi. È questa una delle principali ragioni per cui Cagliari vanta numerosi siti sepolcrali e addirittura, nel caso del Cimitero di Bonaria, un’area funeraria in cui le sepolture dell’800 e del ‘900 si trovano a stretto contatto con tombe di epoca romana. L’articolo di oggi si ripropone un percorso tra queste aree funerarie, pur dovendo limitare le descrizioni delle stesse poiché ogni luogo meriterebbe un articolo a parte…
L’epoca pre-nuragica e nuragica non hanno lasciato resti di grandi aree sepolcrali, non di meno è ancora presente ed apprezzabile una camera appartenente ad una Domus De Janas sul colle di Sant’Elia (tutto ciò che resta di un complesso più ampio distrutto nel corso di sbancamenti del colle all’inizio del ‘900) mentre altri resti di domus erano presenti nell’area di “Sa Duchessa”.
I resti più importanti delle necropoli antiche si devono all’epoca punica e si tratta della ben nota Necropoli di Tuvixeddu: la più grande necropoli punica tuttora esistente nonostante l’attività della Cementeria, che vi si è sovrapposta nel ‘900, ne abbia distrutto quasi la metà.
L’area del colle di Tuvixeddu venne scelta come luogo di sepoltura ed utilizzata pressoché ininterrottamente dal VI al III secolo a.C.; Fenici e Cartaginesi usarono, in Sardegna e a Tuvixeddu in particolare, quasi esclusivamente due tipi di sepoltura: quelle “a fossa” e quelle “a camera”, nelle quali venivano deposte sia le ceneri dei corpi cremati, sia i resti mortali degli inumati. A Tuvixeddu è comunque il modello a camera sotterranea quello più diffuso.
L’accesso alle camere, scavate longitudinalmente nella viva roccia, avveniva per mezzo di pozzi la cui altezza varia dai due ai sette metri e che costituiscono l’aspetto più immediatamente percepibile della sepoltura. In fondo al pozzo una bassa apertura consente l’accesso alla camera sepolcrale, di dimensioni variabili sia a livello planimetrico sia in alzato. L’unione dei volumi del pozzo e della camera forma una sezione a forma di L poco percepibile dall’esterno ma visibile nei resti di alcune camere semidistrutte dagli scavi per il materiale della Cementeria.
All’interno delle camere venivano collocati i corredi funerari costituiti da oggetti propri del defunto, da oggetti necessari alla vita quotidiana nella tomba e da oggetti destinati all’uso nell’aldilà. Spesso il corredo era alloggiato in nicchie, le quali talvolta potevano anche ospitare le ceneri di un cremato. Le camere erano poi finemente decorate, sebbene oggi se ne conservino poche in cui le pitture siano ancora pienamente apprezzabili: resti di queste splendide decorazioni parietali si ritrovano nella “Tomba dell’Ureo” – decorata a mascheroni e motivi vegetali – e nella “Camera della Ruota” o ancora nella “Camera del Combattente”. Attualmente le camere non sono comunque aperte al pubblico proprio per la delicatezza delle pitture superstiti. Dopo l’avvenuta sepoltura, il pozzo veniva riempito con terra e materiale proveniente dallo scavo al fine di preservare l’inviolabilità della camera.
L’area di Tuvixeddu conobbe un’importante frequentazione sepolcrale anche in epoca romana, limitata però solo alla base del colle, sul lato prospicente Viale Sant’Avendrace. Ed è proprio in questo viale che è possibile osservare il più importante tra i sepolcri di epoca imperiale, la “Grotta della Vipera”. Realizzata a cavallo tra il I ed il II secolo d.C. la tomba è la testimonianza di una struggente storia d’amore: quella tra la nobildonna Attilia Pomptilla e suo marito Lucio Cassio Filippo. Il monumento è stato infatti eretto (come testimoniano le poetiche epigrafi incise all’interno) da Lucio Cassio Filippo – che contrasse la malaria durante il suo esilio in Sardegna – in memoria della moglie, la quale invocò gli Dei affinché prendessero la sua vita in cambio di quella del marito, ciò che poi avvenne realmente in quanto alla guarigione di Lucio Cassio successe la morte di Attilia Pomptilla, dopo ben 42 anni di felice vita coniugale.
La Grotta della Vipera, nonostante il nome, è in realtà un monumento scavato nella roccia in forma di tempietto con frontone decorato da un timpano a rosette e due serpenti ai lati. Proprio alla presenza dei serpenti si deve il nome con cui è conosciuto il sepolcro. Il frontone – nel cui sottostante fregio è scolpita la dedica O.P.O.S. MEMORIAE. ATILIAE. L.F. POMPTILLAE BENEDICTAE. M.S.P. – era sorretto da quattro colonne con capitelli compositi dei quali attualmente sopravvive solo quello ancora sospeso alla trabeazione.
Pur avendo oggi un aspetto molto sviluppato in altezza, la tomba di Attilia Pomptilla era di altezza ben inferiore ed occupava solo la metà superiore dello spazio attuale, al di sotto della quale l’ipogeo aveva un’altra camera di pari dimensione e aspetto più modesto. All’interno della sepoltura, come già anticipato, sono presenti iscrizioni in parte ancora del tutto leggibili ed in parte invece assai deteriorate (per la memoria delle quali ci si affida alla trascrizione che ne fece il Canonico Spano) che raccontano la struggente storia dei due coniugi e che saranno parte di un prossimo articolo che potrete leggere in questo sito.
Le opere di scavo e distruzione, anche in seguito ai lavori per la realizzazione della strada reale (primo impianto della S.S. 131) comportarono gravi danni a tutte le tombe che formavano la necropoli romana alla base del colle di Tuvixeddu e che doveva essere ben ricca e articolata.
Tutt’intorno alla Grotta della Vipera erano presenti altre sepolture, tra cui una delle meglio conservata è quella di Tito Vino Berillio, della quale sopravvive il colombario mentre è andata perduta la parete d’ingresso. Entrambe le tombe sono oggi accessibili da una bella recinzione neoclassica, con pilastri in trachite e cancello in ferro, che le preserva all’interno di un’area di rispetto oltre il quale la crescita del borgo di Sant’Avendrace si è imposta sui monumenti romani e sulle palazzine liberty con risultati spesso stridenti quando non meramente anonimi.
Non lontano dalla Grotta della Vipera, anche la tomba di Caio Rubellio è un’importante testimonianza della città dei morti alla base del colle di Tuvixeddu. Anch’essa oggi non è ancora stata aperta al pubblico.
L’epoca romana a Cagliari vide sorgere o ingrandirsi anche altre aree sepolcrali, difatti l’abitato non era limitato alle sole aree tra i quartieri di Stampace e Sant’Avendrace ma si estendeva parallelamente alla linea di costa fino a giungere alle pendici del colle di Bonaria, sede di un’altra vasta necropoli di cui parleremo tra poco. Immaginando di spostarci a volo di uccello da Tuvixeddu verso i limiti orientali della Città romana, a metà percorso incontriamo un’altra necropoli più contenuta, oggi inglobata nel Bastione del Monserrato e, di conseguenza, nella vasta struttura dell’ex Albergo “Scala di Ferro”.
Questa necropoli, attiva tra il I ed il III secolo d.C. era utilizzata soprattutto per la sepoltura dei classiarii (i marinai) e dei soldati. La Necropoli del Bastione del Monserrato non si limitava alla sola area fortificata, ma si estendeva fino a raggiungere il tratto iniziale della via Eleonora d’Arborea occupando dunque lo spazio formato dalla carreggiata del viale Regina Margherita e lo slargo ad uso parcheggio tra via Eleonora d’Arborea, il viale e il vico Regina Margherita.
Narra infatti il Vivanet che: «[…] si imbatteva, a circa 9 m. di profondità dalla via che dal viale Principe Umberto conduce all’antico campo di Marte, in varie tombe, parte costruite con embrici, parte scavate nel nudo suolo, alcune contenenti cadaveri incombusti, altre urne di terracotta, entro le quali si conservavano ceneri e ossa calcinate, tutte munite della solida suppellettile che andò dispersa per incuria degli operai. […] proseguiti gli scavi, si scoprirono tre urne, fittili, con apposito coperchio, racchiudenti ossa combuste. In altra urna uguale fu trovata una moneta cartaginese; e in una quinta urna, simile alle precedenti, erano un unguentario di vetro, un vasetto di terracotta in forma di ampolla, ed una moneta unciale. Nel medesimo strato si trovarono tre altri cadaveri incombusti, vicino ai quali si raccolsero diversi vasetti di vetro e di terracotta; uno specchio di bronzo frammentato; una moneta punica con testa di Astarte e cavallo gradiente.» (Filippo Vivanet, Cagliari in “Notizie degli Scavi di Antichità”, Roma 1880-1888). Questi reperti sono oggi ancora visibili nel Museo Archeologico.
Attualmente la necropoli non è visitabile e i suoi resti si trovano qualche metro al di sotto dell’ex edificio alberghiero. Al suo interno, oltre a murature in grossi blocchi squadrati, sarebbe possibile vedere steli di buona fattura tuttora nelle loro sedi originarie.
Altre steli provenienti dalla Necropoli sono invece custodite nel Museo Archeologico Nazionale, come quella di Lucius Testius Crescens, un legionario (come attesta l’aquila scolpita sul frontone della stele) che fece realizzare il proprio monumento mentre era ancora in vita ricordando nell’epigrafe ka sua partecipazione alle due campagne belliche della Dacia, a quella in Armenia, quella di Partia e di Giudea:
L(UCIUS) TESTIUS CRESCENS, / DOMO ROMA / VIX(IT) ANN(IS) / EXPEDITIONIB(US) INTERFUI(T) / DACIAE BIS ARMENIAE / PARTHIA(E) ET IUDEA(E) / SE VIVO SIBI FEC(IT)
LUCIO TETTIO CRESCENTE, / ORIGINARIO DI ROMA / VISSE … ANNI / PRESE PARTE A ENTRAMBE LE CAMPAGNE / IN DACIA, A QUELLE IN ARMENIA, / IN PARTIA E IN GIUDEA, / FECE PER SÉ DA VIVO.
La stele non mostra gli anni al momento della morte, segno che Lucius Testius Crescens non ebbe eredi che completassero l’opera, o ne ebbe ma non la portarono comunque a compimento.
Molti secoli dopo la dismissione della Necropoli del Bastione del Monserrato, con l’installazione sullo stesso sito, della Caserma della Guardia Nazionale, riprese anche l’attività funebre con l’istituzione di un piccolo cimitero attivo tra la fine del XVIII e il primo quarto del XIX secolo. Vi vennero ospitati anche i defunti dell’Ospedale Militare non ancora instauratosi nell’ex Collegio Gesuitico di San Michele di Stampace.
Ancora più a Oriente, in epoca romana si sarebbe quindi incontrata la vastissima Necropoli Orientale di Karalis, estesa dalle pendici del Cole di Bonaria (su cui si aprivano numerose tombe rupestri, alcune delle quali – come vedremo – ancora esistenti) fino all’attuale Piazza Gramsci. La lunga storia urbanistica di Cagliari ha fatto in modo che, col tempo e con l’urbanizzazione della zona soprattutto tra ottocento e secondo dopoguerra, oggi siano identificabili tre aree principali facenti parte, in origine, di quest’unica città dei morti: la Necropoli di San Saturnino, l’area cimiteriale intorno e sotto la chiesa di San Lucifero e la Necropoli di Bonaria (parte della quale è occupata ora dal Cimitero Monumentale). I recenti lavori per il rifacimento della Piazza Gramsci hanno consentito il rinvenimento di un cippo funerario del tipo “a botte” ancora in perfetto stato di conservazione confermando così l’estensione della Necropoli Orientale fino a questa piazza.
Delle tre aree, quella di San Saturnino e quella di San Lucifero hanno rivestito una fondamentale importanza nella storia cittadina del Seicento, come vedremo in seguito.
La Necropoli di San Saturnino è stata più volte sottoposta a interventi di valorizzazione e scavo con fortune alterne. L’area di Bonaria, invece, dopo un primo recupero negli anni ’90, comincia a manifestare segni gravi di incuria e degrado e necessiterebbe di importanti lavori di valorizzazione (e sanificazione…). La Necropoli Orientale vanta un origine dalla tarda età punica e un suo costante utilizzo fino all’epoca cristiana.
La Necropoli di San Saturnino in particolare, fra le tre appena citate, è quella che mostra il più eterogeneo utilizzo sia per sepolture pagane sia, in seguito, per quelle cristiane. Le tombe presenti al suo interno furono indagate non solo nel ‘600 durante la ricerca dei “Corpi Santi” (i resti dei Martiri cagliaritani) ma anche a fine ‘800 con l’opera avviata dal Taramelli e poi ancora nell’immediato dopoguerra. Attualmente è in vista solo una parte della necropoli, quella immediatamente circostante la Basilica, racchiusa in un’area di rispetto che mostra però l’evidenza del travagliato percorso di scavo. Le due sezioni ai lati della Basilica, nelle aree in cui sorgeva il suo transetto, custodiscono tombe di varia foggia, da quelle scavate (sia a tumulo, sia alla cappuccina o terragne) a quelle in muratura. Numerosi sarcofaghi di importante valore artistico vennero rinvenuti negli scavi seicenteschi, alcuni dei quali fortunatamente reimpiegati all’interno del Santuario dei Martiri sotto il presbiterio della Cattedrale. Il settore retrostante l’abside della Basilica è quello che mostra le steli funebri più interessanti artisticamente tra quelle rinvenute, attualmente dislocate lungo un percorso nel giardino non aperto al pubblico, mentre i settori adiacenti ai bracci del transetto sono occupati soprattutto da tombe scavate o tombe “a cassone” – una delle quali ancora impreziosita dai suoi affreschi originari – e da sepolcri a cupa.
L’area cimiteriale di San Lucifero era estesa ai lati della Chiesa e dei sarcofaghi ivi rinvenuti oggi se ne conservano tre, due dei quali murati all’esterno del braccio meridionale del transetto (si tratta di un sarcofago con decoro strigilato e di un coperchio liscio lievemente modanato) e il terzo adagiato alla base delle scalette che conducono all’interno della Chiesa e oggi inopportunamente adibito a fioriera. Al di sotto della Chiesa l’area sepolcrale prosegue formando una vera e propria cripta costituita da tre camere, i “sacelli”, nelle quali furono rinvenute le tombe dei Santi Lussorio, Rude e Lucifero e dove – fino agli inizi del ‘900 – era custodita anche la scultura raffigurante San Lucifero Vescovo in posizione dormiente (si veda al riguardo l’articolo sui Vescovi Dormienti). I tre sacelli non sono attualmente visitabili ma una loro accurata descrizione è visibile sul sito “Sardegna Virtual Archaeology”.
Ampia ed articolata appare anche la Necropoli di Bonaria, attualmente estesa dall’area del Cimitero Monumentale fino alla cima del colle e alla scalinata omonimi, ma un tempo estesa fino ad essere collegata a quella di San Saturnino. Le sue origini sono di epoca fenicio-punica, ad ogni modo risalenti a due secoli dopo quella di Tuvixeddu. La frequentazione più importante, però, avvenne durante l’epoca romana, quando la collina venne ampiamente scavata per realizzare tombe di foggia diversa, dai cubicoli delle pendici della collina (organizzati all’interno con arcosoli e colombari) alle tombe a fossa della piana ai piedi del colle. L’ampia diffusione dei cubicoli, ancora pienamente a vista nel medioevo, è alla base della prima intitolazione della Chiesa di San Bardilio, ovvero “Santa Maria di Portu Gruttis”, intitolazione che ricorda al tempo stesso il porto, lo scalo attivo per i commerci soprattutto salinieri e le “grotte” aperte su tutto il fianco della collina.
La Necropoli è ora visitabile in tre sezioni diverse: il Cimitero Monumentale, il Giardino e la Scalinata di Bonaria. All’interno del Cimitero, per via delle consecutive opere di ingrandimento, furono rinvenute e scavate diverse tombe, le più importanti delle quali riemersero coi lavori del 1888: il Cubicolo di Giona e il Cubicolo di Munatio Ireneus. Il Cubicolo di Giona oggi non è più accessibile ma è ancora esistente, sebbene in pessimo stato di conservazione e protetto solo da una rete da cantiere e da una porta di metallo in luogo dell’elegante gabbiotto che lo proteggeva fino alla II guerra mondiale. L’interno, al momento della scoperta, apparve da subito di inestimabile valore storico-artistico, essendo ricco di pitture parietali relative alle storie dell’Antico e del Nuovo Testamento. All’antico testamento si rifaceva l’affresco di Giona, raffigurato in preghiera dopo essersi salvato dal ventre della balena. Le scene del Nuovo Testamento invece raffigurano momenti di vita marittima, ovvero quelli legati all’episodio evangelico degli apostoli come “pescatori di uomini” e dunque raffigurati su un’imbarcazione, la “Navicula Petri” (tema ricorrente anche nel Cisternone dell’Orto dei Cappuccini) mentre la terza scena, di ambito campestre, rappresentava il Buon Pastore, ovvero la raffigurazione della parabola della Pecorella smarrita. Gli affreschi, quasi del tutto perduti, sono però ancora apprezzabili grazie agli acquerelli ottocenteschi che li riproducono e che sono custoditi nel Museo Archeologico Nazionale.
Il secondo ambiente, posto a breve distanza dal Cubicolo di Giona, è il Cubicolo di Munatio Ireneus, anch’esso ricco di ornamenti parietali al momento della riscoperta ma oggi del tutto spoglio. Al suo interno è organizzato con tre arcosoli in cui erano raffigurati dei pavoni (simbolo dell’immortalità dell’Anima) e scene della Vita di Gesù. Nell’arcosolio di fondo venne rinvenuta l’epigrafe – oggi mancante – di Munatio Ireneus che consentì appunto di risalire al suo titolare. Questo cubicolo oggi è fortunatamente accessibile dal Campo di San Bardilio, all’interno del Cimitero di Bonaria, ed è stato recentemente restaurato. Diversi altri resti di camere e arcosoli sono presenti all’interno del Cimitero e visibili nel costone che delimita il Campo di San Bardilio e nell’area del “fronte di cava” dove oggi sorge il nuovo ossario.
La seconda sezione della Necropoli di Bonaria è oggi inclusa nel Giardino comunale che dalla piazzetta del Cimitero, attraverso varie gradinate, conduce all’abside della Basilica di Bonaria. Qui è possibile osservare soprattutto camere funebri con arcosoli un tempo ospitanti sarcofaghi, tombe a fossa e colombari. L’andamento del Giardino ricalca in parte l’originario percorso della Necropoli, ma le camere oggi appaiono prive della parete frontale (in parte perché anche quest’area venne usata come cava già nel medioevo e in parte per la friabilità del materiale tufaceo caratterizzante questo versante della collina. Le diverse camere sepolcrali, oggi spoglie, un tempo dovevano presentarsi ricche di decorazioni parietali ascrivibili soprattutto alla frequentazione in epoca paleocristiana, ma anche alla tarda età imperiale. Non stupisce, quindi, che proprio da questi ambienti provengano capolavori scultorei come il bellissimo Sarcofago delle Nereidi oggi custodito all’ingresso del Museo Archeologico Nazionale. Se il giardino gode ancora di una relativamente buona manutenzione e di un’ampia e variegata frequentazione che potrebbero essere alla base di una valorizzazione dell’area archeologica, lo stesso non si può – purtroppo – dire dei singoli ambienti sepolcrali, abbandonati, sporchi e soggetti a vandalismi o all’uso come discariche e servizi igienici alternativi. Un peccato, visto anche il bel connubio tra archeologia e bellezza panoramica offerto dal sito.
La terza porzione della Necropoli di Bonaria riemerse con i lavori per la realizzazione della scalinata che collega il viale Diaz con il piazzale antistante la basilica ed il santuario. Il rinvenimento di parte di un vasto ambiente con pareti occupate da coppie di arcosoli e numerose fosse nella pavimentazione comportò dunque una rielaborazione da parte di Adriano Cambellotti del suo progetto per la scenografica scalinata onde consentire la valorizzazione di un bene archeologico così importante, nonostante al di sotto della scalinata debbano ancora trovarsi diversi altri ambienti ad uso sepolcrale.
L’epoca paleocristiana vide il fiorire anche di una diversa tipologia affiancata a quella delle camere finora osservate, ovvero la realizzazione di vani ipogeici più o meno ampi su cui poi vennero edificati gli edifici di culto che resero queste tombe ipogeiche delle vere e proprie cripte. Oltre alla già citata chiesa di San Lucifero, costruita sopra i sacelli dei Santi Lucifero, Rude e Lussorio, è ancora esistente ma non fruibile una cripta sotterranea al di sotto dell’aula della Basilica di San Saturnino, mentre ai margini occidentali dell’abitato, sul lato opposto alla Necropoli di Tuvixeddu, venne scavato un ambiente in cui furono custodite le spoglie di Sant’Avendrace Vescovo e oggi costituente la cripta dell’omonima chiesa che vi sorse al di sopra.
La più importante tra le cripte paleocristiane è però quella di Santa Restituta, sebbene la sua origine non fosse sepolcrale ma carceraria. Difatti, la struttura ipogeica faceva parte di una serie di ambienti adibiti a prigione – come il vicino Carcere di Sant’Efisio o il Cisternone dell’Orto dei Cappuccini – ma, col tempo e con l’accrescere del culto verso Santa Restituta Martire (madre di Sant’Eusebio di Vercelli, al cui riguardo si può leggere nell’articolo sulle Madri Cagliaritane) divenne una chiesa sotterranea svolgente anche funzioni di sepoltura. Qui, infatti, vennero rinvenute le tombe con le reliquie delle sante Restituta, Giusta, Giustina ed Enedina oltre a varie altre sepolture indagate nel corso della “Ricerca dei Corpi Santi” di inizio ‘600 e al termine della quale parte delle reliquie rinvenute vennero portate nel Santuario dei Martiri, scavato al di sotto del Presbiterio della Cattedrale, ad eccezione proprio delle reliquie di Santa Restituta che furono custodite nella sua cripta, in un altare di stile classicheggiante realizzato appositamente. Le reliquie rimasero qui fino alla II Guerra Mondiale quando vennero trasferite nella Chiesa di Sant’Anna dove – in seguito ai bombardamenti che distrussero parte dell’edificio se ne perse memoria, fino al loro rinvenimento nel 1997.
Un’altra piccola necropoli doveva sorgere al limite settentrionale dell’attuale quartiere di Villanova. Qui, infatti, la costruzione della Chiesa di San Mauro Martire fu conseguente al rinvenimento di un sarcofago contenente i resti del martire cagliaritano. La presenza della sua sepoltura fa quindi ipotizzare l’esistenza di una piccola comunità locale avente una sua propria – sebbene limitata – area di sepoltura.
Con l’avvento dell’era cristiana cambiarono anche i concetti di sepoltura per cui si passò dalle vaste necropoli, fino ad allora costituenti i principali poli sepolcrali, all’uso delle sepolture interne alle chiese accanto a poche aree esterne propriamente cimiteriali.
Il borgo fortificato di Santa Igia (originato dall’abbandono dell’abitato originario di Karalis in seguito alle incursioni saracene) doveva, per sua natura, avere un suo proprio ambito sepolcrale come testimonia il rinvenimento, durante recenti opere di scavo, di diverse sepolture alla cappuccina. Parte dei suoi cittadini, almeno i più illustri, dovevano poi trovare sepoltura all’interno delle tre chiese del borgo, mentre non è da escludersi anche la frequentazione ad uso funebre della non lontana necropoli di Tuvixeddu. Il rinvenimento di un’ampia serie di lapidi epigrafiche nell’area circostante la Chiesa di San Pietro dei Pescatori fa inoltre supporre la presenza di una vasta area cimiteriale fuori dalle mura del borgo ed estesa tra il viale Sant’Avendrace e il viale Trieste.
In Castello, pochi metri a sud della Cattedrale, prese invece forma il “Fossario” da cui deriva il nome dell’omonima via. Collocato nella parte alta della strada, si trattava di un vasto spazio funebre costituito prevalentemente da fosse scavate nella roccia per le sepolture comuni, e in tal veste ricoprì un ruolo importante durante le diverse epidemie di peste che afflissero la città. Attualmente le camere sotterranee del Fossario non sono aperte al pubblico ma gli imbocchi da cui venivano calati i cadaveri al loro interno sono ancora riconoscibili dalle lastre di pietra che li occludono, in prossimità della pavimentazione stradale. Non è escluso che la parte più bassa del Fossario, prima del restringimento a metà altezza della via omonima, fosse poi occupata da un’area più propriamente cimiteriale nel senso moderno del termine e dalla quale proverrebbe quello che a tutt’oggi viene identificato come lo Staio – o Starello – ovvero l’unità di misura del volume in epoca pisana e collocato al lato destro della facciata del Duomo. In realtà è possibile si trattasse del reimpiego di lastre funerarie con lo stemma dei titolari, provenienti, appunto, dall’area cimiteriale del Fossario.
Un altro importante cimitero cittadino era racchiuso tra le mura del quartiere Marina, nell’attuale Piazza del Santissimo Sepolcro. Nella Chiesa omonima aveva la sua sede l’Arciconfraternita dell’Orazione e Morte (istituita nel 1564 e scioltasi solo nel secondo dopoguerra) che si occupava dell’assistenza ai poveri, agli ammalati e ai carcerati (si veda l’articolo sulle Cassette per le Offerte). Lo spazio occupato oggi dalla piazza era un tempo la sede del cimitero privato della confraternita, nel quale trovavano accoglienza le sepolture degli assistiti dell’ente religioso, oltre a famiglie del quartiere.
Del Cimitero non sopravvive traccia alcuna poiché la sua area, già inattiva dopo l’inaugurazione del Cimitero di Bonaria, venne ceduta dalla confraternita al Comune che si occupò della sistemazione della piazza, il che comportò anche il rifacimento della fiancata della chiesa onde farne una scenografica facciata di fondo al nuovo ambiente urbano (1899-1900, si veda al riguardo l’articolo sulle facciate modificate). I confratelli e i loro familiari trovavano invece sepoltura nella cripta della Chiesa, poi occlusa con i resti del cimitero e col materiale derivante dall’abbassamento del livello della piazza e riscoperta negli anni ’90 durante i lavori di restauro dell’edificio religioso. La cripta è scavata nella roccia e risale allo stesso periodo della costruzione del soprastante Cappellone della Pietà, ovvero alla seconda metà del XVII secolo. Lo spazio ipogeico è diviso in due ambienti: quello principale forma una vera e propria chiesa sotterranea con il suo altare (oggi non più esistente) ed è rivestito da pitture in tempera a carbone nera a simulare dei tendaggi a lutto, mentre nella sua volta è dipinta la morte sovrana (si veda l’articolo sulla Morte e i Mostri a Cagliari). Questo era l’ambiente destinato alle sepolture dei confratelli, mentre il secondo vano (più piccolo e decorato anch’esso con un motivo a finti tendaggi in tempera nera al carbone, oltre a teschi con tibie incrociate nei peducci d’imposta dell’arco di rinforzo a sostegno della volta) era destinato alle sepolture delle donne e dei bambini. Altre tombe dovevano, come d’uso comune, trovarsi all’interno della Chiesa.
Un terzo cimitero, piccolissimo e di cui oggi rimane solo qualche tratto murario, si trovava al lato destro della Chiesa di Sant’Alenixedda ed era il luogo di sepoltura degli abitanti del piccolo borgo medievale di San Vetrano, nato durante l’alto medioevo come Santa Igia, ovvero a seguito delle invasioni saracene, e già quasi del tutto spopolato nel XV secolo. Oggi, di tutto il borgo, resta solo una traccia nella toponomastica e la bella chiesetta – un tempo campestre – di Sant’Alenixedda.
Una menzione a parte merita, inoltre, un cimitero non ancora identificato ma sicuramente esistente, ovvero il Cimitero della Giudaria, l’area di Castello abitata dalle famiglie ebree prima della loro cacciata dai territori del Regno di Spagna, tra cui appunto la Sardegna, nel 1492. Oggi si favoleggia di un ampio e popoloso rione avente un suo cimitero nel Fosso di San Guglielmo, mai comprovato dai rinvenimenti che invece attestarono come l’area servisse per le sepolture del quartiere Stampace e vi fosse presente una chiesa scavata nella roccia dedicata appunto a San Guglielmo; nessun dato su un cimitero ebraico venne fuori nonostante l’area sia stata più volte sottoposta a scavi e diversi interventi per varie destinazioni d’uso. È più probabile che il cimitero della Giudaria cagliaritana si trovasse in un’area più vicina alla stessa, verosimilmente dove ora sorge il Bastione di Santa Croce con la soprastante caserma San Carlo. Dati certi invece stabiliscono la presenza della Sinagoga nel sito in cui vi venne sovrapposta la Basilica di Santa Croce. Non è da escludersi – essendo l’area occupata dalla Sinagoga più piccola rispetto all’aula della Basilica – la presenza del Cimitero ebraico proprio all’esterno della sinagoga stessa.
Tra le diverse chiese di Cagliari destinate all’accoglimento di illustri sepolture, spicca quasi ovviamente la Cattedrale, all’interno della quale oggi è possibile osservare le reliquie dei Martiri Cagliaritani, le tombe di vescovi e arcivescovi, di canonici, di un Re d’Aragona, di Vicerè di Sardegna e di Principi di casa Savoia tra cui la regina nominale di Francia, oltre ai nobili.
Le sepolture più antiche, sebbene non provenienti dall’area della Cattedrale e non più svolgenti la loro funzione originaria bensì riutilizzate con scopo decorativo, sono cinque sarcofaghi di epoca imperiale, ascrivibili al I-II secolo d.C.: il primo venne reimpiegato al di sopra dell’architrave nel portale del braccio meridionale del transetto ed è decorato da un prezioso bassorilievo che rappresenta un corteo di genietti con canestri e, al centro, sopra due mascheroni, il medaglione con la rappresentazione di un orante, il defunto che vi fu sepolto.
Tre sarcofaghi sono invece presenti nella Cappella di San Saturnino, nel Santuario dei Martiri. Uno è incastonato sopra l’ingresso – al lato interno – ed era la sepoltura del personaggio togato rappresentato nel suo medaglione mentre oggi ospita le reliquie di dieci martiri; un secondo sarcofago è collocato nella muratura alle spalle del monumento funebre al Principe Carlo Emanuele di Savoia (realizzato da Fra’ Antonio Cano alla fine del ‘700 per ospitare le spoglie del principino morto in tenera età) ed era la tomba del personaggio orante raffigurato mentre oggi custodisce le spoglie di nove martiri. Al centro dell’altare di San Saturnino, proprio al di sopra della mensa, è invece il sarcofago di un personaggio di alto rango, decorato con un bassorilievo raffigurante un corteo di genietti musicanti e che fu riutilizzato come sepoltura proprio per San Saturnino Martire, patrono di Cagliari, le cui spoglie furono infatti rinvenute al suo interno.
Un quinto sarcofago si trova nella Cappella di San Lucifero, nella parete alle spalle del monumento funebre a Maria Giuseppa Luisa di Savoia, regina nominale di Francia, le cui spoglie furono portate a Cagliari per sua volontà e per la quale venne eretto questo bellissimo monumento ad opera di Andrea Galassi, allievo del Canova (per un approfondimento, si veda l’articolo sulle Madri Cagliaritane). Il sarcofago alle sue spalle è decorato con un motivo strigilato ed è sovrastato da una porzione di un ulteriore sarcofago la cui iscrizione – perfettamente conservata – ci informa della successiva sepoltura al suo interno di un Presbitero di nome Antioco. Nello stesso cartiglio è incisa un’ancora, simbolo di fermezza e della certezza della fede in Cristo.
Le tre cappelle costituenti il Santuario dei Martiri ospitano in totale 179 nicchie nelle quali sono custodite le reliquie di uno o più santi, come raffigurato in ogni lastra di copertura. Tali reliquie sono quelle rinvenute nel primo ‘600 durante la “Ricerca dei Corpi Santi”, occasione di una disputa tra le Diocesi di Cagliari e Sassari-Torres per stabilire quale fra loro avesse il primato sul numero di Santi Martiri. Il nostro santuari ha appunto un contraltare in quello scavato al di sotto della Basilica di San Gavino a Porto Torres, dove ebbe la prima sede la diocesi turritana poi trasferita a Sassari. Attualmente non è dato per certo si tratti di reliquie di martiri, l’iscrizione B.M. con le quali furono rinvenute potrebbe significare sia “Bonae Memoriae”, sia “Beatus Martyr”; i restauri del Santuario avvenuti una quindicina di anni orsono hanno comunque consentito di stabilire che all’interno di ogni nicchia le singole spoglie di ogni defunto fossero conservate in astucci di velluto rosso e decorate con foglie di palme in argento, simbolo del martirio, pertanto se ciò non prova definitivamente il fatto che si tratti dei resti di martiri veri e propri, assicura comunque la buonafede di chi, nel ‘600, li ha considerati come tali e forse non a torto.
Nella cappella centrale del Santuario dei Martiri, in una grande nicchia nel pianerottolo di raccordo fra le due rampe laterali e quella centrale, è presente anche la sepoltura di Monsignor D’Esquivel che finanziò la realizzazione del Santuario nel secondo decennio del ‘600 (la sua sepoltura, insieme a quella di Monsignor Pedro De Angulo, a quella di Monsignor De Carinena e quella di San Lucifero nell’omonimo altare della cappella a lui dedicata nel Santuario, viene ricordata già nell’articolo sui Vescovi Dormienti, a cui si rimanda per approfondimenti). Davanti alla tomba di Monsignor D’Esquivel, proprio al centro del pianerottolo, una lastra composta da diversi marmi colorati, occlude l’accesso ad un secondo ambiente sotterraneo nel quale ebbero luogo sepolture di altri vescovi e canonici.
Non si tratta dell’unica altra cripta all’interno del Santuario poiché un altro vano di sepoltura è presente al di sotto della pavimentazione della Cappella centrale e un suo accesso (ridottissimo) oggi è visibile da uno sportello laterale con grata posto al lato dell’altare della Madonna dei Martiri da cui ci si immette in uno stretto loculo rivestito con azulejos che conduce alla fossa ipogeica nella quale furono sepolti i martiri di cui non si conosceva il nome (e nemmeno il numero) poiché le loro spoglie vennero rinvenute nella Necropoli di San Saturnino con l’epigrafe SANCTI INNUMERABILES. Un ulteriore ambiente ipogeico è scavato al di sotto del braccio meridionale del transetto, davanti alla soglia della Cappella Aragonese: è la Cripta degli Argentieri, così chiamata perché ospitò le sepolture del Gremio omonimo che contribuì finanziariamente e materialmente all’abbellimento del duomo sia nella sua prima fase architettonica, sia in seguito alle trasformazioni barocche di metà Seicento. Sempre nel braccio meridionale del Transetto, oltre alla tomba di Mons. De Angulo nell’altare di Sant’Isidoro Agricola e alla più recente tomba di Monsignor Piovella (prima nella Cappella Aragonese, ora in quella della Madonna del Rosario), è presente il bel monumento a Monsignor Bernardo della Cabra, eretto in forma di altare classicheggiante tardorinascimentale ancorché proto-barocco, a ricordare il vescovo cagliaritano che fu la prima vittima della peste del 1655. Al lato opposto, nel braccio settentrionale del transetto, si trova il monumento funebre di Alfonso I d’Aragona, scolpito dal genovese Giulio Aprile e per lungo tempo considerato un cenotafio poiché si pensava che le spoglie di Martino il Giovane si trovassero in Spagna, mentre i restauri del 2006 hanno permesso di appurare la presenza dei suoi resti all’interno della tomba posta nel secondo ordine del grandioso e scenografico monumento sovrastato dall’emblema della Morte Sovrana.
Sempre in questo braccio del transetto, all’interno della Cappella Pisana, dietro l’altare, sono custodite le spoglie di cinque martiri cagliaritani un tempo ospitate nel presbiterio, al di sotto della struttura in marmi policromi che sosteneva il tabernacolo d’argento e che ora si trova nella Cappella del Santissimo della Basilica di Sant’Elena Imperatrice a Quartu S.E.; sul lato opposto, accanto alla bussola neoclassica, è il monumento scolpito da ignoto marmoraro piemontese per ospitare la sepoltura di Mons. Ambrogio Machin. Nella navata sinistra, all’interno della Cappella di N.S. della Mercede, è presente la sepoltura di Mons. Pedro de Carinena (già ricordata nell’articolo sui vescovi dormienti) e il monumento funebre di Luigi Amat di Sorso, preziosa realizzazione neoclassica dello scultore siciliano Federico Siracusa; davanti ad essa, sul lato sinistro della cappella, è invece il monumento funebre a Mons. Paolo Maria Serci, opera squisita del Sartorio. Il monumento non corrisponde però alla sepoltura dell’Arcivescovo, in quanto le sue spoglie, dapprima collocate nella Cappella dei Vescovi al Cimitero di Bonaria, furono in seguito riportate in Cattedrale e deposte nella grande Cripta dei Vescovi, il vano ipogeico scavato al di sotto della navata centrale e un tempo accessibile oltre che dalla già ricordata lastra nel pianerottolo del Santuario dei Martiri, anche da una botola all’altezza della Cappella di Santa Barbara (con i rifacimenti della pavimentazione negli anni ’50 si è deciso di occluderne la fruibilità e nasconderne l’accesso dalla navata centrale).
Non è l’unico altro ambiente ipogeico poiché proprio nella Cappella di N.S. della Mercede un’altra botola, collocata davanti al monumento a Luigi Amat di Sorso, conduce ad un altro vano ipogeico usato per le sepolture dei nobili che ebbero la tutela della Cappella. Nella appena nominata Cappella di Santa Barbara di Nicomedia, sono sepolti due vicerè di Sardegna: Gerolamo Falletti, sul lato destro, e suo fratello Raulo Costanzo già arcivescovo; le due tombe sono preziose testimonianze del barocco piemontese assieme all’intera cappella progettata da Giuseppe Viana alla metà del XVIII secolo.
Tra gli altri luoghi di culto deputati alla sepoltura dei defunti è d’obbligo menzionare la Chiesa di Sant’Eulalia dove, nella prima cappella a destra, sorge – addossato alla parete destra – il monumento Antonio Coppola, che ha un suo gemello nel Presbiterio della Chiesa di San Michele di Stampace ove è sepolto il benefattore Don Angelo Dessì, il che fa supporre la mano dello stesso marmoraro per l’esecuzione dei due bei monumenti (ricordati nell’articolo sui busti commemorativi). Anche la chiesa di Santa Lucia in Marina ospitava sepolture, sia scavate sotto la pavimentazione (e riaffiorate durante gli scavi iniziati qualche anno fa tra i resti dell’edificio andato distrutti in seguito ad un’infausta demolizione nel dopoguerra), sia nella Cappella dell’Addolorata, dove si trovava il bel monumento barocco al nobile Bernardo Dugoni, oggi conservato – in frammenti – nel Museo del Tesoro di Sant’Eulalia.
Dopo la Cattedrale, la chiesa più importante dal punto di vista delle sepolture, era la Chiesa di San Francesco di Stampace, purtroppo la vittima più illustre della speculazione edilizia nel centro cittadino nell’Ottocento. Qui, in questo gioiello dell’architettura gotico-italiana (uno dei rari casi in cui i canoni stilistici non erano di importazione iberica) erano presenti diverse tombe illustri mentre il convento attiguo, nelle sue pertinenze, provvedeva a dare sepoltura ai cittadini del quartiere di Stampace. La chiesa aveva il suo ingresso al lato sinistro, sul Corso Vittorio Emanuele II, mentre addossata alla controfacciata sorgeva – in luogo dell’ingresso originario – una cantoria con tre cappelle sottostanti. Proprio di fianco all’ingresso sul Corso Vittorio Emanuele II si trovava una delle più singolari sepolture cittadine, poiché era l’unico caso in cui la defunta fosse sepolta in una pubblica via: si trattava di Donna Violante Carroz, la nobildonna che passò alle cronache della fine del ‘400 e del primo ‘500 per aver fatto impiccare il sacerdote che rivelò al Vescovo di Ales la relazione della contessa con un diplomatico catalano. Le cronache danno due versioni diverse sulla sua sepoltura tra chi la vuole agli arresti domiciliari nel convento e sepolta fuori della chiesa a causa della scomunica impartitale dal vescovo di Ales e chi invece parla di un suo pentimento e della sua esplicita richiesta di venire sepolta volontariamente fuori della chiesa non ritenendosi degna di un posto al suo interno dove – raccontano le cronache – già si trovavano i sepolcri del suo primo marito Dalmazzo Carroz e dei suoi due figli morti in giovane età. Dopo alcune vicende legate alla demolizione della Chiesa e del Convento, il sarcofago passò più volte di proprietà. Oggi è esposto nel Cimitero Comunale di Decimomannu.
Sempre nella Chiesa di San Francesco di Stampace, all’interno, nella prima cappella a destra, si trovava la lastra tombale di Guido Di Dono (Dedoni), uno dei rari casi di lastre pavimentali a copertura di una tomba. Bellissima, nella sua fattura gotica, la lastra è oggi custodita all’interno della Cittadella dei Musei, accanto alla lastra sepolcrale di Vannuccia Orlandi, proveniente anch’essa dalla Chiesa di San Francesco dove era sepolta la giovane e descritta dallo Spano nel parlare della Sacrestia di detta chiesa, sopra il lavabo: ciò significa che la sepoltura della giovane venne in seguito eliminata, forse anche per far spazio ad altre tombe o per modifiche alla cappella in cui doveva trovarsi, e la lastra venne conservata per il suo valore storico-artistico.
Il Canonico Spano ricorda inoltre all’interno della Chiesa, al lato destro del presbiterio, la sepoltura di Don Alvario Madrigal, Vicerè di Sardegna e fndatore del collegio gesuitico di Santa Croce, in Castello; sempre dalle descrizioni dello Spano è nota la sepoltura di Padre Tommaso Polla (morto nel 1663 in odore di santità), dietro l’altare maggiore, e della Duchessa di San Pietro, morta nel 1753 e ricordata da un’ampollosa iscrizione.
Nel quartiere di Villanova, la già citata chiesa di San Mauro non solo venne costruita nel luogo del rinvenimento della sepoltura del martire cagliaritano, ma in seguito – come molte chiese conventuali – ospitò anche diverse sepolture tra le quali è d’obbligo ricordare, per la sua rilevanza storica e religiosa, quella di San Salvatore da Horta, le cui spoglie vennero custodite in un semplice sarcofago di pietra calcarea tuttora conservato all’interno della Chiesa, nella seconda cappella a sinistra proprio sotto la nicchia col reliquiario. In seguito le spoglie vennero traslate nella Chiesa di Santa Rosalia dove riposano ancora oggi all’interno di una teca di cristallo e bronzo un tempo ospitata in un ciborio realizzato dai fratelli Usai negli anni ’20 per il presbiterio della chiesa. A seguito della demolizione del baldacchino sotto cui era alloggiata la teca, la stessa venne conservata al di sotto della mensa dell’altare maggiore. È inoltre presente, sempre nella Chiesa di San Mauro, la sepoltura di Padre Andrea Ligas nella Cappella di San Raffaele il cui altare venne fatto edificare proprio dal Ligas (come ricorda la lapide sepolcrale) che, pertanto vi venne sepolto accanto, nel 1766.
Anche la piccola Chiesa di San Rocco, costruita nel XVII secolo come sede religiosa del Gremio dei Lattai, aveva i suoi spazi di sepoltura, dei quali oggi sopravvive solo quello di Francesca Melis Chiappe, mentre il Canonico Spano ci ricorda anche la tomba di Donna Ciccia Montagnano, morta agli inizi del XIX secolo e considerata dal popolo come una mistica in odore di santità.
Fra i cimiteri dell’età moderna, e non necessariamente ecclesiastici, il più antico è sicuramente quello sorto come luogo di sepoltura per i malati del Lazzaretto nell’area dell’attuale quartiere di Sant’Elia, all’epoca della costruzione dell’edificio – sul finire del ‘600 – ancora pressoché disabitata. Nel tempo, il Lazzaretto da un primo insieme di baracche venne trasformato nella struttura oggi pervenutaci. I primi ingrandimenti si devono già al 1720, a cui seguì un ingrandimento nel 1835 e diversi cambi di destinazione d’uso, non ultimo l’utilizzo nel dopoguerra per dare alloggio ai cittadini rimasti senza casa dopo i bombardamenti.
Alle spalle del Lazzaretto, nell’area oggi occupata da una struttura scolastica, si trovava il Cimitero, ricordato anch’esso dal Canonico Spano. Di questo cimitero oggi non rimane nulla in situ, mentre nel 1951 nel Nuovo Orto delle Palme del Cimitero di Bonaria venne trasportato il monumento funebre del Generale francese Alessandro Carlo Conte di Perregaux. Colpito durante una battaglia tra ottomani e francesi a Costantina, il 12 ottobre 1837, morì in mare presso Sant’Elia dove venne sepolto. Il monumento, così come lo descrive lo Spano, doveva presentarsi in modo più scenografico rispetto al lastrone che oggi costituisce tutto ciò che ne rimane e risulta come unica testimonianza tangibile del Cimitero del Lazzaretto.
A cavallo tra gli ultimi anni del ‘700 e gli inizi dell’800 risale l’istituzione del Cimitero Acattolico nello spazio compreso tra le attuali vie Lanusei, XX Settembre, nell’area oggi in parte occupata dalla palazzina della Società degli Operai. L’area aveva già preso il nome di “Sa Butanica” poiché fu, tra il 1752 e il 1769, la prima sede dell’Orto Botanico, in seguito abbandonata in favore dell’area di Palabanda dove venne re-istituito nel 1820. Col nome di Sa Butanica, dunque, si suole oggi indicare anche il Cimitero che sostituì l’Orto. Pur sorgendo in una zona all’epoca ancora poco inurbata, il Cimitero – intorno alla metà dell’Ottocento – venne a trovarsi in pieno centro cittadino e ne fu decisa la dismissione con la conseguente bonifica igienica dell’area e il trasferimento delle sepolture allora presenti presso il Cimitero di Bonaria. Qui, nel Campo degli Acattolici (nel quadrato alla sinistra dell’Oratorio) rimangono ancora alcune lapidi provenienti da Sa Butanica e il bel monumento a Joseph Smith Esq (ovvero Esquire, il titolo nobiliare spettante anche ai proprietari terrieri più importanti), morto nel 1812. Il monumento è costituito da una bella urna neoclassica posta in cima a una colonna accompagnata, alla base, da due lucerne. Da “Sa Butanica” provengono anche alcune delle lapidi un tempo in posizione eretta e oggi adagiate su blocchi di cemento, sulle quali sono incisi motivi decorativi e simbologie nettamente differenti rispetto ai canoni presenti nella maggior parte delle sepolture di Bonaria, legate alla tradizione cattolica.
Con l’Editto di Saint-Cloud, del 1804, cambiò in modo radicale la concezione di cimitero fino ad allora insita nella cultura europea, prevedendo spazi destinati al riposo eterno non più dentro le chiese o tra le mura dei centri abitati e – almeno nelle intenzioni originarie – con l’erezione di tombe tutte simili tra loro (cosa poi non avvenuta – fortunatamente – poiché la nascita dei cimiteri moderni ha costituito l’avvio di una nuova forma artistica di monumentalità assai ampia e variegata, l’arte appunto funebre, mentre l’anonimo ripetersi delle stesse tombe per tutti i cittadini è stato lasciato ai giorni nostri). Tuttavia in Italia, e in particolare per il Regno di Sardegna, si dovette attendere una seconda direttiva per la promulgazione di un regolamento per il sistema cimiteriale, ovvero l’Editto della Polizia Medica, del 1806. Ed è appunto a questo secondo editto che ci si rifece per l’istituzione del Cimitero di Bonaria, già deciso proprio nel 1806 a seguito di una epidemia di colera ma progettato solo nel 1822 dall’ingegnere militare Luigi Damiano e inaugurato nel 1828.
Parlare del Cimitero di Bonaria richiederebbe troppo tempo alla stesura e alla lettura dell’articolo, meritando un luogo così importante alcuni articoli a parte. Ci si limiterà, quindi, in questa occasione, a riportare le principali tappe dello sviluppo del Camposanto Monumentale e delle correnti artistico-sociali che vi si possono riscontrare.
Il primo nucleo del Cimitero è quello che ancora oggi ne costituisce il cuore, ovvero il quadrilatero compreso fra tre lati da cappelle gentilizie (in una moderna reinterpretazione del chiostro monasteriale) e chiuso su un quarto lato, a oriente, da un terrazzamento in cui venne costruito l’Oratorio. Questo primo nucleo è tuttora diviso in quattro campi di forma quadrata delimitati da viali alberati con cipressi e qualche inopportuna e dannosa palma. Al centro dei due viali principali era eretta la colonna di lumachella proveniente dall’attuale Piazza del Carmine, in seguito spostata davanti all’ingresso principale del Cimitero (per la quale si rimanda all’articolo sugli Ingressi ai Cimiteri Monumentali del Cagliaritano). Lo Spano, nella sua “Guida della Città di Cagliari” del 1861, racconta come all’epoca le cappelle gentilizie fossero ancora appena 11, diventate poi dodici nella sua successiva “Storia e Necrologio del Cimitero di Bonaria”, del 1866. Si era ancora lontani da quello scontro artistico-sociale tra borghesia e aristocrazia che, dalla seconda metà dell’800, comporterà la realizzazione delle cappelle più sontuose non solo con l’intento di dare degna sepoltura ai propri cari, ma facendo delle stesse un vero e proprio status-symbol nelle quali si manifesta un gusto più sobrio per quelle nobiliari e un gusto artistico più estroso e appariscente per quanto riguarda le cappelle delle famiglie alto-borghesi, nuove protagoniste della vita cittadina. A metà del XIX secolo vi fu un primo ingrandimento del cimitero con la realizzazione del terrazzamento retrostante i campi attigui all’Oratorio (destinati alla sepoltura dei bambini), raggiungibile attraverso pochi gradini. Nel dislivello ai lati delle gradinate verranno quindi realizzate le prime sepolture in loculi in muratura, oggi ancora presenti ma – sfortunatamente – prive delle cornici marmoree che un tempo le incastonavano alla parete (infatti ora sono sospese con semplici ganci metallici, probabilmente più pratici ma meno eleganti del primitivo sostegno). In uno dei campi realizzati in questo primo ingrandimento verrà eretto il bel monumento al Conte Viale, uno dei più imponenti fra quelli del camposanto, purtroppo vittima di un atto vandalico nel 1997 e ancora in attesa di recupero.
Nella seconda metà dell’Ottocento, inoltre, il cimitero fu esteso con la realizzazione del Campo di San Bardilio (così chiamato perché in origine pertinenza della chiesa che sorgeva nell’attuale piazzetta di accesso al camposanto, demolita sul finire degli anni ’2°), sul lato meridionale, diviso dal quadrilatero originario da una parete ospitante loculi in muratura e conclusa da una cornice su archetti pensili richiamanti lo stile romanico: si era giunti infatti all’epoca delle reinterpretazioni artistico-architettoniche dei canoni del passato, dal primo gusto neoclassico al neoromanico, al neogotico e al neo-egizio. Il campo di San Bardilio verrà inoltre raccordato all’area della chiesa omonima con un successivo ingrandimento che consentì la realizzazione del cosiddetto Viale degli Eroi – così chiamato per la serie di sepolture dei soldati caduti durante la prima guerra mondiale – e la costruzione dell’edificio con la casa del custode e il cancello liberty costituente il nuovo accesso principale al cimitero (edificio e cancello spariranno con la costruzione del nuovo ingresso in materiale prefabbricato, tanto brutto a vedersi quanto inutile nelle sue funzioni poiché lo spazio sovrastante destinato a Museo Cimiteriale non verrà mai utilizzato a tal fine e oggi è interamente occupato da decenni di guano depositatisi per la sola frequentazione dei volatili). Dal 1860, su progetto di Gaetano Cima, il cimitero si estese anche sul versante occidentale del colle di Bonaria-Monreale con sette lunghe e scenografiche scalinate intervallate da cinque terrazzamenti nei quali vennero realizzati loculi nei quali sono presenti lapidi di notevole valore artistico che oggi però risentono di uno stato di abbandono pressoché totale.
Il Cimitero raggiunse quindi la cima del colle e dall’ultimo decennio dell’800 vi vennero costruite alcune importanti cappelle gentilizie che mostrano un’ampia varietà di stili: si passa dallo stile liberty della Cappella Onnis-Devoto (la prima edificata, opera del Sartorio) e della Cappella Zedda Piras (con un importante apparato scultoreo realizzato da Andrea Valli, ispirandosi anche al revival egizio allora in voga) allo stile neoromanico della Cappella Leone-Coiana al neogotico (Cappella Quaresimi) al neo-egizio (Cappella Setti, su progetto del Sartorio, e Cappella Serra, ospitante anch’essa un importante gruppo scultoreo dello stesso autore) fino al più raffinato Decò della Cappella Faggioli. Durante questa fase di sviluppo verso la cima del Colle, nella salita che dal campo di San Bardilio conduce alle cappelle gentilizie appena citate, negli anni ’70 dell’Ottocento venne realizzato un nuovo settore con disposizione all’inglese, seguendo quindi il naturale andamento del terreno invece delle disposizioni geometriche tipiche dei giardini – e dei cimiteri – all’Italiana e alla francese. Più in alto, sorsero le prime aree per le sepolture sociali. La prima a sorgere fu il Sacrario dei Reduci delle Patrie Battaglie, realizzato nel 1886 probabilmente dall’architetto Enrico Melis, un allievo di Gaetano Cima che progettò anche il Mercato Civico del Largo Carlo Felice (realizzato nello stesso anno) e infatti il monumentale ingresso al Sacrario dei Reduci delle Patrie Battaglie riprende perfettamente il progetto neoclassico del mercato inferiore col suo porticato; successivamente venne realizzata l’area per le sepolture della Società degli Operai, del 1888.
Negli anni ’20 del ‘900 il cimitero si estese anche a Nord dell’area pianeggiante con la realizzazione del Nuovo Orto delle Palme (oggetto del recente recupero di due pareti di loculi), diviso in tre campi ospitanti alcune buone opere del tardo periodo liberty e molte sculture contemporanee di interessante valore, tra cui opere di Dino Fantini e di Francesco D’Aspro. Parte del Nuovo Orto delle Palme rimase inutilizzata anche in seguito alla dichiarazione dello stato di Monumentalità del Cimitero.
Con i nuovi ingrandimenti degli anni ’20 il cimitero prese definitivamente possesso della cima del colle di Bonaria fino a raggiungere il transetto della Basilica; quest’ultima area in cima al colle venne poi drasticamente ridotta negli anni ’80 del ‘900 con la realizzazione degli spazi del parco cittadino di cui si è già parlato nella prima parte, riguardo la Necropoli di Bonaria. Il declino del cimitero cominciò già negli anni ’40 in parte con l’apertura del nuovo cimitero di San Michele ma soprattutto quando il suo patrimonio artistico venne fortemente danneggiato dai bombardamenti del 1942 e del 1943 (si veda a tal proposito l’articolo sulle cicatrici di guerra) e con la definitiva chiusura alle nuove sepolture avvenuta nel 1968 con la dichiarazione a Cimitero Monumentale: fu proprio la proclamazione dello stato di monumentalità – contrariamente a quanto ci si sarebbe aspettato – ad avviare un lungo periodo di abbandono e incuria a cui solo in anni recenti si è cominciato a porre rimedio. A piccoli passi, certo, ma il mare è formato da gocce e anche il recupero di un singolo monumento va visto come un passo in avanti verso il – speriamo non lontano – pieno recupero totale.
Nel corso della sua secolare attività il Cimitero di Bonaria ha visto lavorare al suo interno artisti importanti del panorama cagliaritano, sardo e nazionale, e il succedersi dei numerosi cambi di gusto in campo artistico, dall’iniziale stile neoclassico al neogotico, al liberty, al verismo scultoreo, ad alcuni casi di espressionismo fino al razionalismo. Tra i numerosi artisti che vi lavorarono, vanno ricordati Tito Sarrocchi, Emanuele Giacobbe, Giovanni Battista Troiani, Ambrogio Celi, Andrea Valli; i genovesi Giovanni Battista Villa, Agostino Allegro e Antonio De Barbieri, già attivi anche nel più noto Cimitero di Staglieno; il cagliaritano Cosimo Fadda protagonista di una “romanzata” rivalità con il piemontese Giuseppe Sartorio, a cui si devono oltre duecento opere, alcune delle quali scomparse; e poi Francesco Ciusa e i pittori Guglielmo Bilancioni, Domenico Bruschi, Filippo Figari, oltre ad artisti dell’età contemporanea come i già citati Francesco D’Aspro e Dino Fantini.
Tra le personalità più illustri della storia cittadina qui sepolti si ricordano Giovanni Marghinotti, Mario de Candia, Piero Schiavazzi, Pietro Martini, Felice Melis Marini, Ottone Bacaredda e soprattutto il Canonico Giovanni Spano, senza le cui guide non ci sarebbe gran parte della conoscenza che si ha della Cagliari dell’epoca e molti articoli di questo sito non avrebbero visto la luce.
Circa due chilometri e mezzo a sud-est del Cimitero di Bonaria, non lontano dal Lazzaretto e dal suo camposanto, si trovava un altro piccolo cimitero oggi scomparso, quello del Bagno Penale di San Bartolomeo.
La struttura penitenziaria venne istituita con regio decreto di Carlo Alberto di Savoia nel 1842, allo scopo (non tanto sottinteso) di sfruttare la manodopera dei condannati per il duro lavoro nelle Saline – che all’epoca si estendevano fin quasi a lambire il borgo di San Bartolomeo – e, successivamente alla bonifica delle stesse, per il lavoro nei campi. Non vi è una data certa riguardo l’istituzione del piccolo cimitero annesso, ma dovette essere quasi immediatamente successiva alla fondazione dell’istituto di pena, viste anche le condizioni precarie e il duro lavoro cui erano sottoposti i condannati. Certamente non doveva essere un cimitero ospitante opere d’arte, bensì il rigore della sua origine carceraria non dovette lasciare spazio che a poche e semplici lapidi. Con la dismissione dell’istituto penale nel 1915 e la trasformazione d’uso dell’edificio in caserma, anche questo piccolo cimitero scomparve. Al suo posto, oggi, vi è un semplice cortile adibito a parcheggio.
L’altro cimitero storico/monumentale di Cagliari è quello di Pirri, sorto nel 1913 ma progettato già mezzo secolo prima – nel 1864 – in sostituzione del cimitero che sorgeva a ridosso della parrocchiale di San Pietro Apostolo e di cui oggi non sopravvive alcuna traccia anche in conseguenza dell’urbanizzazione incontrollata dell’agglomerato urbano pirrese. Al “nuovo” cimitero di Pirri si accede attraverso un portale dal ricco significato simbolico (si veda l’articolo sugli ingressi ai cimiteri monumentali del cagliaritano) ed è diviso in un settore antico corrispondente al suo nucleo originario, attorniato da settori moderni e affollati. Al suo interno non mancano opere antiche di buona fattura, tra cui alcune sculture di Antonio Usai (uno dei migliori tra gli allievi del Sartorio); purtroppo però recenti atti vandalici hanno seriamente danneggiato alcuni dei monumenti più belli, tra cui la sepoltura dei coniugi Trudu, e quella della famiglia Trudu-Zorcolo, entrambe opere di Ettore Spano.
Nel 1933, essendo ormai poco lo spazio disponibile per ingrandire ulteriormente il Cimitero di Bonaria, all’epoca poi già del tutto compreso nell’abitato cittadino, si progettò un nuovo e ampio cimitero alle pendici del colle di San Michele, in un’area che all’epoca non aveva ancora conosciuto la smodata espansione urbanistica che la caratterizzerà nei decenni a venire. Al Cimitero di San Michele si accede da un vastissimo porticato compreso fra due ali absidate e al centro del quale svetta l’alto vestibolo cupolato impropriamente detto “famedio” (poiché al suo interno non furono mai sepolti personaggi illustri della società cagliaritana); tutta la struttura formata da porticato, absidi e vestibolo è realizzata in conci di trachite di Serrenti alternata a pilastri in calcare.
Dal vestibolo, il cui interno è suggestivamente intonacato in azzurro, ci si avvia per un vasto piazzale da cui si diparte il viale centrale, inframmezzato da tre logge estese sui due lati del viale e formati quindi sei quadrilateri porticati. Qui si trovano le sepolture più antiche di questo moderno camposanto, ovvero le tombe dei cittadini morti sotto i primi bombardamenti che colpirono il centro abitato cagliaritano. Nella prima loggia a destra è inoltre sepolta una grandissima artista cagliaritana, Anna Marongiu Pernis, che con le sue bellissime incisioni ha lasciato ai posteri un prezioso documento sulla vivace vita cittadina di una Cagliari non ancora devastata dalla guerra.
Oltre le tre logge, il viale prosegue fino alla severa e slanciata cappella, espressione del più concreto monumentalismo proto-razionalista degli anni ’30. Sobria e maestosa, si caratterizza per il suo notevole sviluppo verticale.
Sul settore destro rispetto al viale principale e alle logge sorge invece un sacrario dedicato ai soldati caduti nella II Guerra Mondiale, costruito in forma di nuraghe e severissimo nelle forme, toccante e suggestivo nel ricordare tante vite spezzate in una guerra a cui, forse, molti di loro avrebbero preferito non prendere parte. Immediatamente dopo il Sacrario si trova il settore riservato ai soldati inglesi e tedeschi caduti anch’essi nella Seconda guerra mondiale: un’area dove il silenzio è palpabile e le non poche croci bianche impongono una seria e profonda meditazione.
Le vittime civili della II guerra mondiale sono invece commemorate in un monumento che sorge nel settore a sinistra del viale principale, in uno spazio più intimo e raccolto, circondato da cipressi: si tratta di un significativo “Albero della Vita”, realizzato in metallo per commemorare, appunto, i civili caduti sotto i bombardamenti del 1943 nel cinquantenario di quei tragici eventi.
Poche e non particolarmente interessanti sono le opere d’arte del Cimitero di San Michele, nel quale le sepolture ormai sono votate al più assoluto anonimato – quello stesso auspicato dall’Editto di Saint-Cloud – e spesso manifestazioni del kitsch degli ultimi due decenni a cui l’arte funeraria ha fornito ampia possibilità di espressione.
Il lungo e millenario percorso tra i cimiteri cagliaritani si conclude qui, spero che anche quest’articolo – pur nella sua lunghezza – sia stato di vostro gradimento.
Simone Raspino.